Romanzi, saggi, testi che
parlano di neve e montagna sono molti di più di quanto si possa pensare. Un
viaggio letterario tra i migliori titoli
La
letteratura che tratta di sci, neve e discese è fatta per la maggior parte di
guide: tecniche, turistiche, fotografiche, manualistiche. Mentre dalla scena di
Fantozzi sulle piste di Courmayeur alle innumerevoli sciate dell’agente Bond,
gli sci hanno avuto svariate interpretazioni cinematografiche, non sono molti
gli scrittori famosi che si sono confrontati con il Grande Bianco e il suo
sport per eccellenza. Questo non vuol dire che manchino i libri interessanti.
Significa solo che per trovare i titoli giusti bisogna allargare gli orizzonti
e scavare un poco più a fondo, magari con l’aiuto di librai e bibliofili
specializzati.
“Non è
facile scrivere bene di sci: occorre padroneggiare la materia e avere anche la
capacità narrativa”, osserva Monica Garibaldi, titolare della libreria milanese
Monti in Città, unica specializzata in questo genere letteratura insieme a La
Montagna di Torino. “E poi mancano investimenti e attenzione da parte degli
editori”.
Oltre ad
essere un genere di nicchia, c’è la questione che in Italia i testi sono
pubblicati col contagocce e spesso spariscono poco dopo l’uscita. Alcuni titoli
mitici come Alpinismo invernale, che
racconta le prime esplorazioni in sci del pioniere svizzero Marcel Kurz, è
addirittura introvabile.
“Se fosse
disponibile, l’avrei già venduto 30 volte” assicura Garibaldi.
Romain Gary,
uno degli autori francesi più prolifici del dopoguerra, due volte vincitore del
premio Goncourt, negli anni Sessanta ha scritto un romanzo intitolato The ski bum che non è mai stato tradotto.
“Per fare
questo mestiere oltre a librai, bisogna essere un po’ bibliofili e aver voglia
di ricercare”, conferma Maurizio Bovo della libreria La Montagna.
La diffidenza dei grandi nomi dell’editoria
verso un genere che non garantisce ritorni sicuri è comprensibile, ma lascia il
mercato italiano nelle mani di piccoli editori, come Mulatero e Monterosa, che
lavorano con passione e competenza ma non hanno le risorse per comprare diritti
esteri e traduzioni.
La conseguenza è che, oggi, per leggere classici
come Le skieur de l'impossible, sullo svizzero Sylvain Saudan, o Meine Spur, mein Leben, sul mitico spazzacamino di Merano
Heini Holzen, occorre masticare il francese e il tedesco. Il primo, una
biografia dell’antesignano dello sci ripido, si può ancora trovare in
un’edizione italiana degli anni ’70 (Monti in Città ne ha una). Del secondo una
traduzione uscirà, forse, solo il prossimo anno.
“Il problema
è che in Italia lo sci è vissuto solo come sport, trascurando l’aspetto
culturale che sottende”, osserva Enrico Camanni, autore torinese e voce fra le
più autorevoli di quelle che trattano il mondo alpino. Il romanziere ha scritto
un giallo intitolato La Sciatrice in cui coniuga la storia di un soccorritore
alpino che deve risolvere il mistero della scomparsa di una sciatrice in un
crepaccio con riflessioni sulla montagna. “Manca ancora un fenomeno globale come
Open di Agassi che dimostri le
potenzialità di questo genere”.
Eppure fra i pionieri della letteratura di sci e dintorni c’è proprio un italiano, primo connazionale a provare gli sci di fondo: il gesuita Francesco Negri (1623-1698), che a metà Seicento partì per il Polo Nord per capire come si vivesse a quelle latitudini. Nel suo Viaggio Settentrionale, il padre scrive che i cacciatori lapponi e svezzesi, come li chiama lui, si muovono veloci su “due tavolette sottili, che non eccedono in larghezza il piede, ma lunghe otto, o nove palmi con la punta alquanto rilevata per non intaccar la neve, nel mezzo di esse sono alcune funicelle, con le quali se le assettano bene una a un piede, e l’altra a l’altro, tenendo poi un bastone alla mano conficcato in una rotella perché non fori la neve”.
Eppure fra i pionieri della letteratura di sci e dintorni c’è proprio un italiano, primo connazionale a provare gli sci di fondo: il gesuita Francesco Negri (1623-1698), che a metà Seicento partì per il Polo Nord per capire come si vivesse a quelle latitudini. Nel suo Viaggio Settentrionale, il padre scrive che i cacciatori lapponi e svezzesi, come li chiama lui, si muovono veloci su “due tavolette sottili, che non eccedono in larghezza il piede, ma lunghe otto, o nove palmi con la punta alquanto rilevata per non intaccar la neve, nel mezzo di esse sono alcune funicelle, con le quali se le assettano bene una a un piede, e l’altra a l’altro, tenendo poi un bastone alla mano conficcato in una rotella perché non fori la neve”.
Di certo, lo
stile di scrittura del gesuita ha fatto scuola. Ancora oggi, la letteratura di
sci si confonde spesso con quella di viaggio. Fra gli autori italiani che hanno
interpretato meglio questa tendenza c’è Giorgio Daidola, free rider patito di telemark, che nel suo Free Spirit riassume trent’anni di
viaggi a caccia di fresca, dalle pareti degli 8000 metri tibetani ai raid nelle
Rocky Mountains americane. Un libro di avventure, ma anche una riflessione sulla
massificazione dell’esperienza alpina e un invito a sognare. Perché, come scrive Daidola, “finché si sogna
c’è voglia di vivere, di conoscere, di scrivere. Finché si sogna c’è
soprattutto voglia di sciare”.
Il pantheon dello sci abbonda di eroi e
campioni. Fra loro c’è Doug Coombs, padre dello sci estremo a stelle e strisce
narrato in Sulle Tracce di Coomba attraverso
i luoghi e le persone che l’hanno accompagnato fino alla tragica morte,
avvenuta in Francia nel tentativo di soccorrere un amico precipitato in un
dirupo. E Mario
Cotelli, tecnico della nazionale italiana che in Valanga azzurra rievoca il periodo d’oro
in cui la squadra riuscì in imprese impensabili.
Le piste e i
rifugi di montagna sono anche pieni di teste calde, oltre che pensanti. Fra
queste Dick Dorworth autore di Night
Driving che slalomeggia fra narrativa sciistica e psichedelica, in un racconto
parte On the Road e parte Paura e disgusto a Las Vegas. L’autore,
che negli anni ‘60 fu recordman di velocità a quasi 172 km/h, racconta i suoi
viaggi sulle migliori piste americane alternando avventura, esperienze
lisergiche e considerazioni filosofiche. Con taglio più
sociologico, c’è White Planet tratteggia
l’evoluzione della subcultura dei nomadi contemporanei che dedicano la vita a
questo sport. I cosiddetti ski bum,
malati di sci che si spostano a caccia di neve rimediando qualsiasi lavoro pur
di vivere vicino agli impianti, un po’ come fanno i surfer con le onde. Qui si
trovano le origini delle tendenze che più recentemente hanno cambiato il modo
di vivere le nevi, come il freestyle. O che sono finite nel dimenticatoio, come
lo ski ballet.
A testimoniare l’influenza profonda dello sci
sulla storia delle nostre valli ci sono titoli come La leggenda dello sci alpino del giornalista Massimo Di Marco e La riscoperta delle Alpi con gli sci di
Lorenzo Bersezio. Oppure libri che raccontano delle guerre combattute sulle
nostre montagne: Il ghiacciaio di Nessuno
di Marco Preti è un romanzo d’azione quasi cinematografico (non a caso
l’autore è anche regista), ispirato alle imprese dei Diavoli dell'Adamello
durante la Prima Guerra Mondiale. La storia di alpini sciatori che hanno
combattuto sul confine tra Austria e Italia accompagnati dalla costante
presenza della Morte Bianca, del freddo e degli sci. Climb to Conquer è la storia vera di una divisione d’élite
dell’esercito americano addestrata sui monti del Vermont e finita a combattere
sugli Appennini. Oltre ad essere avvincente, il racconto, già opzionato da
Robert Redford per un film, dimostra come il gesto e la disciplina dello sci
abbiano forgiato menti brillanti: fra gli alpini americani c’erano il
cofondatore della Nike Bill Bowerman, inventore di scarpe rivoluzionarie, e Bob
Dole, senatore e candidato alla Casa Bianca ai tempi di Bill Clinton.
Ma gli sci non sono solo eroismo e
sacrificio. Per prendersi un po' meno sul serio c’è Anche le foche ridono, striscia a fumetti che scherza su vizi,
nevrosi e manie di chi pratica lo scialpinismo firmata da Caio Comix, al secolo
Claudio Getto. E per chi ama i rimandi ai temi d’attualità c’è Deep dell’americano Porter Fox, che
analizza l’impatto dei cambiamenti climatici sul futuro di questo sport. Un
ottimo richiamo per mettere a fuoco le conseguenze dei nostri comportamenti
sugli ecosistemi montani e sulle nostre passioni.
Per confermare l’eclettismo del genere, è utile menzionare
un ultimo titolo che, pur trattandosi di un documentario, usa gli sci per
parlare di uno dei mostri sacri della nostra letteratura, innamorato di questo
sport. Gli sci di Primo Levi, è un
film di quest’anno della Rai che segue il filo conduttore di un aneddoto narrato da Ives Francisco,
falegname valdostano arrestato dai fascisti il 13 dicembre ‘43 insieme a Levi
sulle montagne della Val d’Ayas: il racconto di un bel paio di sci abbandonati
dallo scrittore ebreo in quell’occasione. Con i loro attacchi Kandahar, con
cavo a molla metallico e leva anteriore di serraggio per scivolare a tallone
libero o bloccare il piede, furono usati dal giovane falegname per riparare in
Svizzera, disertando la chiamata alle armi della Repubblica di Salò. E infine recuperati
da Levi al suo ritorno dai campi di concentramento.
Pubblicato su Rivista Undici
Nessun commento:
Posta un commento