mercoledì 10 gennaio 2018

La Letteratura dello Sci


Romanzi, saggi, testi che parlano di neve e montagna sono molti di più di quanto si possa pensare. Un viaggio letterario tra i migliori titoli 

La letteratura che tratta di sci, neve e discese è fatta per la maggior parte di guide: tecniche, turistiche, fotografiche, manualistiche. Mentre dalla scena di Fantozzi sulle piste di Courmayeur alle innumerevoli sciate dell’agente Bond, gli sci hanno avuto svariate interpretazioni cinematografiche, non sono molti gli scrittori famosi che si sono confrontati con il Grande Bianco e il suo sport per eccellenza. Questo non vuol dire che manchino i libri interessanti.
Significa solo che per trovare i titoli giusti bisogna allargare gli orizzonti e scavare un poco più a fondo, magari con l’aiuto di librai e bibliofili specializzati.
“Non è facile scrivere bene di sci: occorre padroneggiare la materia e avere anche la capacità narrativa”, osserva Monica Garibaldi, titolare della libreria milanese Monti in Città, unica specializzata in questo genere letteratura insieme a La Montagna di Torino. “E poi mancano investimenti e attenzione da parte degli editori”.
Oltre ad essere un genere di nicchia, c’è la questione che in Italia i testi sono pubblicati col contagocce e spesso spariscono poco dopo l’uscita. Alcuni titoli mitici come Alpinismo invernale, che racconta le prime esplorazioni in sci del pioniere svizzero Marcel Kurz, è addirittura introvabile.
“Se fosse disponibile, l’avrei già venduto 30 volte” assicura Garibaldi.
Romain Gary, uno degli autori francesi più prolifici del dopoguerra, due volte vincitore del premio Goncourt, negli anni Sessanta ha scritto un romanzo intitolato The ski bum che non è mai stato tradotto.
“Per fare questo mestiere oltre a librai, bisogna essere un po’ bibliofili e aver voglia di ricercare”, conferma Maurizio Bovo della libreria La Montagna.
La diffidenza dei grandi nomi dell’editoria verso un genere che non garantisce ritorni sicuri è comprensibile, ma lascia il mercato italiano nelle mani di piccoli editori, come Mulatero e Monterosa, che lavorano con passione e competenza ma non hanno le risorse per comprare diritti esteri e traduzioni.
La conseguenza è che, oggi, per leggere classici come Le skieur de l'impossible, sullo svizzero Sylvain Saudan, o Meine Spur, mein Leben, sul mitico spazzacamino di Merano Heini Holzen, occorre masticare il francese e il tedesco. Il primo, una biografia dell’antesignano dello sci ripido, si può ancora trovare in un’edizione italiana degli anni ’70 (Monti in Città ne ha una). Del secondo una traduzione uscirà, forse, solo il prossimo anno.
“Il problema è che in Italia lo sci è vissuto solo come sport, trascurando l’aspetto culturale che sottende”, osserva Enrico Camanni, autore torinese e voce fra le più autorevoli di quelle che trattano il mondo alpino. Il romanziere ha scritto un giallo intitolato La Sciatrice in cui coniuga la storia di un soccorritore alpino che deve risolvere il mistero della scomparsa di una sciatrice in un crepaccio con riflessioni sulla montagna. “Manca ancora un fenomeno globale come Open di Agassi che dimostri le potenzialità di questo genere”.
Eppure fra i pionieri della letteratura di sci e dintorni c’è proprio un italiano, primo connazionale a provare gli sci di fondo: il gesuita Francesco Negri (1623-1698), che a metà Seicento partì per il Polo Nord per capire come si vivesse a quelle latitudini. Nel suo Viaggio Settentrionale, il padre scrive che i cacciatori lapponi e svezzesi, come li chiama lui, si muovono veloci su “due tavolette sottili, che non eccedono in larghezza il piede, ma lunghe otto, o nove palmi con la punta alquanto rilevata per non intaccar la neve, nel mezzo di esse sono alcune funicelle, con le quali se le assettano bene una a un piede, e l’altra a l’altro, tenendo poi un bastone alla mano conficcato in una rotella perché non fori la neve”.
Di certo, lo stile di scrittura del gesuita ha fatto scuola. Ancora oggi, la letteratura di sci si confonde spesso con quella di viaggio. Fra gli autori italiani che hanno interpretato meglio questa tendenza c’è Giorgio Daidola, free rider patito di telemark, che nel suo Free Spirit riassume trent’anni di viaggi a caccia di fresca, dalle pareti degli 8000 metri tibetani ai raid nelle Rocky Mountains americane. Un libro di avventure, ma anche una riflessione sulla massificazione dell’esperienza alpina e un invito a sognare. Perché, come scrive Daidola, “finché si sogna c’è voglia di vivere, di conoscere, di scrivere. Finché si sogna c’è soprattutto voglia di sciare”.
Il pantheon dello sci abbonda di eroi e campioni. Fra loro c’è Doug Coombs, padre dello sci estremo a stelle e strisce narrato in Sulle Tracce di Coomba attraverso i luoghi e le persone che l’hanno accompagnato fino alla tragica morte, avvenuta in Francia nel tentativo di soccorrere un amico precipitato in un dirupo. E Mario Cotelli, tecnico della nazionale italiana che in Valanga azzurra rievoca il periodo d’oro in cui la squadra riuscì in imprese impensabili.
Le piste e i rifugi di montagna sono anche pieni di teste calde, oltre che pensanti. Fra queste Dick Dorworth autore di Night Driving che slalomeggia fra narrativa sciistica e psichedelica, in un racconto parte On the Road e parte Paura e disgusto a Las Vegas. L’autore, che negli anni ‘60 fu recordman di velocità a quasi 172 km/h, racconta i suoi viaggi sulle migliori piste americane alternando avventura, esperienze lisergiche e considerazioni filosofiche. Con taglio più sociologico, c’è White Planet tratteggia l’evoluzione della subcultura dei nomadi contemporanei che dedicano la vita a questo sport. I cosiddetti ski bum, malati di sci che si spostano a caccia di neve rimediando qualsiasi lavoro pur di vivere vicino agli impianti, un po’ come fanno i surfer con le onde. Qui si trovano le origini delle tendenze che più recentemente hanno cambiato il modo di vivere le nevi, come il freestyle. O che sono finite nel dimenticatoio, come lo ski ballet.
A testimoniare l’influenza profonda dello sci sulla storia delle nostre valli ci sono titoli come La leggenda dello sci alpino del giornalista Massimo Di Marco e La riscoperta delle Alpi con gli sci di Lorenzo Bersezio. Oppure libri che raccontano delle guerre combattute sulle nostre montagne: Il ghiacciaio di Nessuno di Marco Preti è un romanzo d’azione quasi cinematografico (non a caso l’autore è anche regista), ispirato alle imprese dei Diavoli dell'Adamello durante la Prima Guerra Mondiale. La storia di alpini sciatori che hanno combattuto sul confine tra Austria e Italia accompagnati dalla costante presenza della Morte Bianca, del freddo e degli sci. Climb to Conquer è la storia vera di una divisione d’élite dell’esercito americano addestrata sui monti del Vermont e finita a combattere sugli Appennini. Oltre ad essere avvincente, il racconto, già opzionato da Robert Redford per un film, dimostra come il gesto e la disciplina dello sci abbiano forgiato menti brillanti: fra gli alpini americani c’erano il cofondatore della Nike Bill Bowerman, inventore di scarpe rivoluzionarie, e Bob Dole, senatore e candidato alla Casa Bianca ai tempi di Bill Clinton.
Ma gli sci non sono solo eroismo e sacrificio. Per prendersi un po' meno sul serio c’è Anche le foche ridono, striscia a fumetti che scherza su vizi, nevrosi e manie di chi pratica lo scialpinismo firmata da Caio Comix, al secolo Claudio Getto. E per chi ama i rimandi ai temi d’attualità c’è Deep dell’americano Porter Fox, che analizza l’impatto dei cambiamenti climatici sul futuro di questo sport. Un ottimo richiamo per mettere a fuoco le conseguenze dei nostri comportamenti sugli ecosistemi montani e sulle nostre passioni.
Per confermare l’eclettismo del genere, è utile menzionare un ultimo titolo che, pur trattandosi di un documentario, usa gli sci per parlare di uno dei mostri sacri della nostra letteratura, innamorato di questo sport. Gli sci di Primo Levi, è un film di quest’anno della Rai che segue il filo conduttore di un aneddoto narrato da Ives Francisco, falegname valdostano arrestato dai fascisti il 13 dicembre ‘43 insieme a Levi sulle montagne della Val d’Ayas: il racconto di un bel paio di sci abbandonati dallo scrittore ebreo in quell’occasione. Con i loro attacchi Kandahar, con cavo a molla metallico e leva anteriore di serraggio per scivolare a tallone libero o bloccare il piede, furono usati dal giovane falegname per riparare in Svizzera, disertando la chiamata alle armi della Repubblica di Salò. E infine recuperati da Levi al suo ritorno dai campi di concentramento.

Pubblicato su Rivista Undici

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