giovedì 10 novembre 2016

La macchia nera di Williston

Parchi nazionali e bisonti. Ranch e praterie. Bacini petroliferi caduti in disuso dopo il crollo dei prezzi. Nel Nord Dakota, tra asprezza, bellezza e resilienza, perché qui la gente non può non reinventars.
 
L’incontro è avvenuto mentre il tramonto dava il meglio di sé sulle Badlands, le Mako Sika per i Sioux, “terre cattive” nell’Ovest del Nord Dakota. Si saliva lungo un costone color ocra scolpito dal vento, nel mezzo di un complesso di canyon e calanchi che ricordano le formazioni aspre di Aliano in Basilicata; fiancheggiavamo una delle poche vallate dolci che montano dalla prateria e che raccontano in 4D come qui ci fosse l’oceano: davanti a noi, al margine della carreggiata il bisonte, fermo come un grande masso di onice appena uscito dalle profondità, ancora imbrattato di terra, il testone rivolto verso l’auto. Il lampeggio degli occhi non c’illumina sulle sue intenzioni, potrebbe essere curiosità, ma anche una luna storta. Gli indiani Lakota ci avevano avvertito che quando ingobbiscono la coda è meglio essere a una cinquantina di passi perché possono aver preso la decisione di caricare a razzo. Sappiamo anche che i bisonti di ragioni per caricare ne hanno almeno quattro milioni, quanti più o meno ne sono stati eliminati dall’uomo bianco in una ventina d’anni nella seconda metà dell’Ottocento; con calma e pudore ci allontaniamo dalla sua primordiale e sacrosanta solitudine. E pensiamo quanto sia intrigante il rapporto tra gli americani e la wilderness.