L’incontro è avvenuto mentre il tramonto dava il meglio di sé sulle Badlands,
le Mako Sika per i Sioux, “terre cattive” nell’Ovest del Nord Dakota. Si saliva
lungo un costone color ocra scolpito dal vento, nel mezzo di un complesso di
canyon e calanchi che ricordano le formazioni aspre di Aliano in Basilicata; fiancheggiavamo
una delle poche vallate dolci che montano dalla prateria e che raccontano in 4D
come qui ci fosse l’oceano: davanti a noi, al margine della carreggiata il
bisonte, fermo come un grande masso di onice appena uscito dalle profondità,
ancora imbrattato di terra, il testone rivolto verso l’auto. Il lampeggio degli
occhi non c’illumina sulle sue intenzioni, potrebbe essere curiosità, ma anche
una luna storta. Gli indiani Lakota ci avevano avvertito che quando ingobbiscono
la coda è meglio essere a una cinquantina di passi perché possono aver preso la
decisione di caricare a razzo. Sappiamo anche che i bisonti di ragioni per
caricare ne hanno almeno quattro milioni, quanti più o meno ne sono stati
eliminati dall’uomo bianco in una ventina d’anni nella seconda metà dell’Ottocento;
con calma e pudore ci allontaniamo dalla sua primordiale e sacrosanta solitudine.
E pensiamo quanto sia intrigante il rapporto tra gli americani e la wilderness.
Hanno fondato il loro carattere spazzando via la Natura che gli si parava davanti, foreste, paludi, bestie… avrebbero asfaltato le praterie se solo fosse già esistito l’asfalto; e poi, esattamente cent’anni fa in questi giorni d’agosto, hanno inventato i parchi nazionali, che qualcuno ritiene sia il più importante sistema creato dall’uomo dopo quello della democrazia: secondo Terry Tempest Williams, la scrittrice simbolo del West contemporaneo, i National Parks “ci ricordano ciò che si era dimenticato, che siamo parte della Natura, prodotti della Natura, non separati da essa. E il modo come gestiamo questo patrimonio dice molto di noi, racconta chi siamo”.
Hanno fondato il loro carattere spazzando via la Natura che gli si parava davanti, foreste, paludi, bestie… avrebbero asfaltato le praterie se solo fosse già esistito l’asfalto; e poi, esattamente cent’anni fa in questi giorni d’agosto, hanno inventato i parchi nazionali, che qualcuno ritiene sia il più importante sistema creato dall’uomo dopo quello della democrazia: secondo Terry Tempest Williams, la scrittrice simbolo del West contemporaneo, i National Parks “ci ricordano ciò che si era dimenticato, che siamo parte della Natura, prodotti della Natura, non separati da essa. E il modo come gestiamo questo patrimonio dice molto di noi, racconta chi siamo”.
Non la pensava così Alexis de Tocqueville. Nel suo filosofico reportage
americano, quando visitò il limite della frontiera colonizzata che nel 1831 si
trovava ancora in Michigan, individuò la diversità di questo nuovo popolo nel
suo confronto lucido e implacabile con la Natura: “La foresta è diventata
villaggio, il villaggio paese. Nel suo rapporto quotidiano con il selvaggio,
l’americano non prova il sentimento della meraviglia di fronte a tanta
bellezza. Questa tremenda distruzione e il conseguente progresso economico sono
la regola di questa parte del mondo. Il fondamento del suo ottimismo. Non
esiste Paese dove gli uomini abbiano tanta certezza nel dominare la Natura e
nelle loro possibilità di guidare il futuro”.
Il cacciatore visionario. Ma la diversità è più
complessa: non bastano gli strumenti di un sofisticato illuminista francese per
capire il rapporto intimo e sacrale tra gli americani e la Natura (aiutano
forse molto di più i poemi di Walt Whitman e la prosa di Henry David Thoreau) o
come il loro realismo li ha poi portati a dire basta, che era arrivato il momento
di conservare per non tagliare il ramo su cui stava poggiata l’aquila calva. Non
è un caso che l’ispiratore della politica nazionale di protezione della
wilderness sia stato un cacciatore seriale come Theodore Roosevelt, uno che
veniva qui sulle rive del Missouri a sparare a tutto quello che respirava, una
figura che ricorda Ernest Hemingway, innamorato del selvaggio, ma cultore del
superomismo da safari e collezionista bulimico di trofei. Prima di diventare
presidente e di lasciare al suo successore Woodrow Wilson l’onore di stabilire
per decreto – il 25 agosto del 1916 – la nascita del sistema federale dei
parchi da lui inventato, Roosevelt si era autoesiliato da queste parti: conosceva
il Dakota Territory perché aveva partecipato al massacro di buffali, alci e
bighorn; quindi nel 1883, quando ebbe il suo annus horribilis - la perdita
della moglie e della madre nello stesso giorno e il mobbing politico del
partito repubblicano che intuiva le ambizioni del giovane newyorkese - decise
di diventare un cowboy, di sfogare le sue malinconie nella più ostile delle
terre appena conquistate a Ovest del Missouri, le Badlands.
Qui maturò la dottrina “imperiale” in politica estera (“parla a bassa voce e porta con te il bastone” sarà il suo motto da presidente) e una sorta di “protezionismo naturalistico” in politica nazionale. Nel corso della sua amministrazione avrebbe creato cinque parchi, 18 monumenti nazionali, 51 santuari per uccelli e oltre un milione di acri di foresta nazionale protetta. “Siamo diventati grandi per l’uso sconsiderato delle nostre risorse. Ma è arrivato il momento di chiederci cosa accadrà quando le foreste saranno sparite, quando il carbone, il ferro, il petrolio e il gas saranno esauriti…”.
Vedeva lontano Theodore, ma il suo messaggio sembra indirizzato a pochi chilometri dal suo ranch e dal parco che prende il suo nome: infatti stiamo galleggiando sulla Bakken formation, uno dei bacini petroliferi più grandi del mondo; siamo a un tiro di schioppo da Williston, ex paesotto di poche migliaia di anime attraversato dal Missouri, diventato in qualche anno la capitale della oil rush, la corsa all’oro nero. Una posta sul tratturo carovaniero durante la conquista del West oggi simbolo della conquistata indipendenza energetica americana.
Qui maturò la dottrina “imperiale” in politica estera (“parla a bassa voce e porta con te il bastone” sarà il suo motto da presidente) e una sorta di “protezionismo naturalistico” in politica nazionale. Nel corso della sua amministrazione avrebbe creato cinque parchi, 18 monumenti nazionali, 51 santuari per uccelli e oltre un milione di acri di foresta nazionale protetta. “Siamo diventati grandi per l’uso sconsiderato delle nostre risorse. Ma è arrivato il momento di chiederci cosa accadrà quando le foreste saranno sparite, quando il carbone, il ferro, il petrolio e il gas saranno esauriti…”.
Vedeva lontano Theodore, ma il suo messaggio sembra indirizzato a pochi chilometri dal suo ranch e dal parco che prende il suo nome: infatti stiamo galleggiando sulla Bakken formation, uno dei bacini petroliferi più grandi del mondo; siamo a un tiro di schioppo da Williston, ex paesotto di poche migliaia di anime attraversato dal Missouri, diventato in qualche anno la capitale della oil rush, la corsa all’oro nero. Una posta sul tratturo carovaniero durante la conquista del West oggi simbolo della conquistata indipendenza energetica americana.
L’oro e la ruggine. “È finita. I 100
dollari al barile non li vedremo mai più. Si potrà arrivare forse a 75. Ma
quello che è accaduto qui è un capitolo chiuso. Game over. Questa è la legge
della frontiera, si vince e si perde” dice Tom Novak, lo sfasciacarrozze alla
periferia di Willinston, uno dei pochi a fare ancora affari sulla Bakken. I
pionieri 2.0 con il crollo del prezzo del petrolio di due anni fa hanno
lasciato un mucchio di ruggine: migliaia di caravan abbandonati nei campi; in
molti, disoccupati, hanno resistito sperando nella ripresa del nuovo Klondike,
hanno perso tutto, nemmeno i soldi per la benzina, e sono rientrati negli Stati
d’origine in autostop. Il becchino della ferraglia se la ride: “Era pazzesco,
un milione di barili estratti ogni giorno, Williston era una cittadina di 14
mila abitanti e in tre quattro anni è arrivata a settantamila. Non si riusciva
a costruire abbastanza in fretta per dare una casa a tutti e allora migliaia di
uomini vivevano accampati come ai tempi del vecchio West… E qui si toccano i
meno quaranta d’inverno…”
Un domino di fallimenti, centomila persone disoccupate nell’indotto. Per
queste strade passavano quattro milioni di semi-articolati l’anno, ora gli
incroci sono di nuovo deserti, ci si saluta tra automobilisti. Era impossibile
trovare un posto nei motel, poi ne hanno costruiti a decine, enormi, e ora i
parcheggi sembrano piste d’atterraggio. Interi quartieri fantasma che non hanno
mai visto fumare un barbecue. Anche le prostitute arrivate fin dalla Russia
sono emigrate sui marciapiedi della California. In una regione dove le case non
avevano serrature hanno scoperto la criminalità: “Il petrolio ha lasciato una
macchia nera” dice Chris Simon direttore della stazione radio KEYZ, “l’Fbi ha
aperto una grossa sede a Williston”.
La chiamavano Shale Revolution, l’estrazione ottenuta con la frantumazione idraulica, trecento pozzi in attività: e il Nord Dakota occidentale era improvvisamente il nuovo Texas. Oggi i pozzi in attività sono 27, nei bar i reduci controllano continuamente le quotazioni del greggio.
La chiamavano Shale Revolution, l’estrazione ottenuta con la frantumazione idraulica, trecento pozzi in attività: e il Nord Dakota occidentale era improvvisamente il nuovo Texas. Oggi i pozzi in attività sono 27, nei bar i reduci controllano continuamente le quotazioni del greggio.
Addio alle armi. “Ripartiremo, non sarà
la stessa adrenalina, ma si tornerà a pompare, è bello sapere che là sotto ci
sono 20 miliardi di barili” dice Joel Landin, ex manager di un club esclusivo
per petrolieri che ora è diventato un lavasecco. Racconta che l’America,
soprattutto chi sente il richiamo della frontiera, sa trasformare la crisi in
opportunità. In questi due anni le compagnie hanno sperimentato nuove
tecnologie di estrazione che permettono un break even a 27 dollari al barile. A
Bismark, la capitale di questo Stato di 750 mila abitanti che fino a pochi anni
fa era marginale, oggetto di battute sulla sua dubbia esistenza – un po’ come
accade al nostro Molise – c’è la consapevolezza di essere diventati
determinanti per le sorti del Paese: la Bakken ha garantito l’indipendenza
energetica agli Stati Uniti fino a farli diventare Paese esportatore di greggio
nel 2015, fattore cruciale nel cambio di rotta in politica estera: “Non avremo
più bisogno di impegnarci militarmente in certe zone, di fare guerre per il
petrolio. Grazie al North Dakota, l’Europa può emanciparsi dal ricatto russo”
dice Kari Cutting vicepresidente del consorzio locale che riunisce oltre 500
società del settore petrolio e gas.
L’imprinting dell’immigrazione scandinava fa di questo Stato un caso unico in America: le politiche ambientali ed economiche avvicinano Bismark più a Oslo che a Dallas (esiste, come in Norvegia, un fondo petrolifero di distribuzione degli interessi). Ecologisti e petrolieri si tendono la mano: “Non è questione di fermare l’estrazione” dice Jen Swenson, direttrice della Badlands Conservation Alliance. “Ma lo slow down permette a tutti di aggiustare il tiro. Magari di investire in nuove fonti d’energia. Qui nella prateria abbiamo altro oro, e si chiama vento”.
L’imprinting dell’immigrazione scandinava fa di questo Stato un caso unico in America: le politiche ambientali ed economiche avvicinano Bismark più a Oslo che a Dallas (esiste, come in Norvegia, un fondo petrolifero di distribuzione degli interessi). Ecologisti e petrolieri si tendono la mano: “Non è questione di fermare l’estrazione” dice Jen Swenson, direttrice della Badlands Conservation Alliance. “Ma lo slow down permette a tutti di aggiustare il tiro. Magari di investire in nuove fonti d’energia. Qui nella prateria abbiamo altro oro, e si chiama vento”.
Ne sanno qualcosa nel vicino Wyoming, dove sta avvenendo una delle più
clamorose riconversioni della storia dell’energia, in perfetto stile
neo-pionieristico e nello spirito della Real America, come viene chiamata
questa zona attraversata dal Missouri, il fil rouge del nostro viaggio sulle
orme della spedizione di Lewis&Clark. Il Wyoming era il “carbon State”, produceva
la metà del fabbisogno nazionale (il 66 per cento dell’elettricità degli Usa è
prodotta da carbone e gas). Con le politiche ambientali di Barack Obama, il
Clean Power Plan, il settore sta crollando, migliaia di minatori perdono il
lavoro. Ma vengono assorbiti nella wind rush, la corsa all’eolico, perché il
Wyoming sta diventando un laboratorio mondiale, attira investimenti globali
nella costruzioni di nuovi impianti. E il re del vento è il magnate
repubblicano Philip F. Anschutz: entro il prossimo anno costruirà la TransWest
Express, che non è una ferrovia ma una condotta elettrica che trasporterà
l’energia pulita del Wyoming fino a Las Vegas e California: “Il vento della
prateria potrebbe illuminare tutte le case degli americani” ha detto.
Pallottola d’argento. Se c’è una terra
simbolo della resilienza, della capacità di rialzarsi più forti di prima,
questa è quella bagnata dal Missouri. E Meriwether Lewis, il capo della Corps
of Expedition che ha permesso l’espansione a Ovest del Paese, è certo
l’archetipo dei resilienti. Anche grazie a una massiccia dose di fortuna (senza
la quale forse il destino degli Stati Uniti sarebbe stato diverso). Nel suo viaggio
il capitano è riuscito, in successione, a cadere in un burrone, ad avvelenarsi
con i gas delle pietre focaie, a subire l’attacco da un grizzly... Ma il peggio
è accaduto proprio in Nord Dakota , sulla via del rientro dopo aver raggiunto
il Pacifico, quando mancava poco alla conclusione dell’impresa. Nei pressi di
Fort Union, Lewis decide di andare a caccia di alci per far cambusa e si
addentra nel bush col fidato Pierre Cruzatte, un violinista francese sguercio
da un occhio. Sparano a un’animale e lo feriscono, quindi si separano per
accerchiarlo e finirlo. Ma mentre Lewis avanza nella boscaglia lungo il
Missouri viene colpito da una pallottola alla chiappa destra. Pensa subito a
Cruzatte, chiama ma quello è sparito: appena sentito l’urlo del suo capitano ha
tagliato la corda. Lewis ipotizza anche un attacco indiano e il rapimento del
compagno. Riesce a trascinarsi fino all’accampamento, Cruzatte viene scovato e
finge di non sapere nulla, dice di essersi perso. Ma Lewis riesce ad estrarre
la pallottola, una calibro 54 modello 1803 in dotazione all’esercito americano:
è la prova della scarsa mira del violinista sguercio, che però viene perdonato
per la lealtà dimostrata lungo tutto il viaggio. Il capitano sarà costretto ad
affrontare il resto della spedizione sdraiato sulla pancia e a fare il suo
ingresso trionfale a Saint Louis zoppicando. La pallottola che colpì la chiappa
dell’ufficiale – simbolo di resilienza e di… buona sorte - è custodita in una teca alla Biblioteca del Congresso
degli Stati Uniti.
4/5 The River Journal Project
testo di Marzio G. Mian e Nicola Scevola
Foto di Nanni Fontana e Massimo Di Nonno
Pubblicato su Sette del Corriere della Sera
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