venerdì 14 ottobre 2016

Lo spirito di Toro Seduto odiato da Donald Trump

La terza tappa del viaggio lungo il Missouri River per capire l'America di oggi passa fra le riserve delle tribù di nativi americani Dakota, da Omaha a Bismarck.

Poco più a Sud di Yankton, sulla sponda destra del Missouri, l’affaccio sul fiume è solenne. Un bluff, un promontorio erboso, piatto come un biliardo; e intorno una guardia di “alberi del cotone”, che sono poi pioppi, gli stessi che ombreggiano le lanche del Po e che furono importati dall’America per produrre la miglior carta italiana, ma che qui, a casa loro, sono così immensi e antichi che è facile confonderli con le querce secolari. Come accade solo lungo i fiumi di carattere - dove certi luoghi basta guardarli e si capisce subito che non è solo la loro bellezza ad attrarre, quanto la teatrale vocazione a ospitare l’epopea e la Storia - in questo tratto di Missouri si sente come un brivido la presenza del Grande Spirito della pianura; sullo sbalzo sembra di essere osservati dai pellerossa infrattati nella boscaglia dall’atra parte, che è già Sud Dakota. È qui che la spedizione di Lewis e Clark - risalendo il Missouri alla ricerca di quel passaggio a Nord Ovest che avrebbe aperto la via all’espansione americana - si accampò alla vigilia dell’incontro con i Sioux, la più bellicosa delle tribù. Da qui i bianchi osservavano inquieti i fuochi e le danze propiziatorie oltre il fiume.

Il vertice avvenne poco più a Nord di Yankton. Oggi è una cittadina che si sviluppa su un river-front ben conservato e dallo charme western-retrò; da qui i viaggiatori amanti del mito Dakota, di Toro Seduto, della Danza del Sole e dei rituali tribali pow wow cominciano ad addentrarsi, seguendo il Missouri, nei territori delle riserve indiane che maculano le mappe della regione fino al Montana. Ma Yankton era la roccaforte dell’immenso dominio Sioux, come gli yankee chiamavano i Dakota. Le regole d’ingaggio erano chiare per i 33 uomini della Corps of Expedition: anche se era una missione militare, qualora vi fosse stato un chiaro pericolo di scontro armato, l’ordine era di difendersi e rientrare. Il summit si tenne in terra ostile, su quello che venne poi chiamato il Calumet Bluff, il promontorio dove l’abile Lewis – che alternava minacce a promesse di regali - al termine di una lunga trattativa con il grande capo Weucha, Mano Tesa, fumò la pipa per celebrare il via libera nel regno dei Sioux. Ma poche settimane dopo, all’altezza dell’odierna Pierre, capitale del Sud Dakota, l’imbarcazione fluviale degli americani è bloccata. I pellerossa rubano l’ultimo cavallo rimasto alla spedizione, Lewis gioca la parte dell’indignato per acquisire rispetto, dice che quello era un regalo destinato alla tribù da parte “del nuovo grande padre dei bimbi pellerossa”. Quando però passa alla distribuzione dei soliti regali, tabacco, perline, medaglie e uniformi militari, la situazione degenera, i capi dicono che quella roba lì la possono avere anche da francesi e spagnoli.
Si passa al whiskey. Gli indiani ubriachi pretendono l’intera canoa di regali con cui Clark sta per raggiungere l’imbarcazione principale. Viene strattonato; da buon ufficiale della Virginia estrae la sciabola e si trova circondato da trecento guerrieri con le frecce puntate. Lewis fa armare il cannone, l’acciarino in mano pronto a fare fuoco e combattere. Nonostante i fucili, i 33 americani sarebbero stati massacrati. Furono interminabili minuti. Lewis portò la sfida al limite, finché Black Buffalo prese la cima con cui i suoi trattenevano la piroga di Clark e la lasciò andare. La missione poteva quindi riprendere, superare le Montagne Rocciose, arrivare al Pacifico… e gli Stati Uniti in pochi anni avrebbero raddoppiato la loro superfice e un giorno sarebbero arrivati sulla Luna… Gli indiani ancora si chiedono se quella corda non abbia invece segnato il loro destino; “l’hanno usata per impiccarci” ci dice un ragazzo Dakota seduto con il suo whiskey in un bar alla periferia di Pierre.

Ad un certo punto finisce il fiume e comincia il fiume-lago. Il Missouri settentrionale racconta la storia di un successo nato da un fallimento. Nel dopoguerra Franklin D. Roosevelt pianificò, a partire dal Sud Dakota, un gigantesco sistema di dighe. Sei mega-sbarramenti, da Garrison fino a Fort Peck in Montana: il Muddy Mo, il fiume che secondo i pionieri era troppo denso da bere ma non abbastanza da dissodare, il fiume della memoria, del Grande Spirito nazionale (non più solo indiano) fu addomesticato e trasformato per decreto in turbina nazionale. Il Missouri è un libro aperto dell’identità americana, costruita sul doppio registro passato-presente, wilderness-tecnologia, laissez faire-statalismo. Si sarebbe governata la navigabilità, ridotto il rischio di piene, creato un sistema d’irrigazione, avviata l’industrializzazione del West e prodotta tanta energia. Tutti obiettivi mancati. Nel 2006 sul fiume hanno viaggiato solo 180 mila tonnellate di merci, l’equivalente di quanto viene trasportato in un solo giorno lungo il Mississippi. La grande piena del 2011 che ha colpito Pierre, Omaha e Kansas City dimostra che addomesticare tutto il fiume è impossibile. Il canale di collegamento che doveva irrigare il mais del Sud Dakota orientale mai realizzato. Gli americani sono bravi a trasportare petrolio, ma non l’acqua: quella che è la più grande riserva idrica del Paese potrebbe alleviare la perenne emergenza siccità che sta flagellando il Texas e il Sud Ovest… Ma il “nuovo Missouri” ha invece fatto decollare il turismo: i giganteschi bacini che occupano il 35 per cento del corso del fiume sono diventati una destinazione internazionale. Quello di Ohahe è lungo quasi quattrocento chilometri, vanta più coste della California. La pesca del pregiato walleye attira lenze da tutto il mondo (un business minacciato dalle specie alloctone, come la carpa asiatica, invasiva e odiata come il pesce siluro del Po). “Il turismo è diventato la seconda voce dopo l’agricoltura” dice Karen Kern, direttrice del Sud Dakota Missouri River Tourism. “Grazie alle dighe possiamo valorizzare il racconto della frontiera, restaurare i forti, costruire musei, conservare la memoria dei pionieri. Perché, sapete… l’America non è più un Paese giovane. Ormai è come da voi in Europa, anche qui cominciamo a guardarci indietro”.  

Ma c’è chi alle sue spalle vede altro, come Clay Jackinson, docente di studi umanistici alla Bismarck University: “Le dighe sono state la peggiore offesa fatta nel Novecento dagli americani ai pellerossa. Una cosa crudele. Hanno collocato le dighe dove facevano il minor danno ai bianchi e il peggiore agli indiani; sono stati allagati cimiteri, villaggi, sentieri di caccia sacri. C’è un’immagine del capo Gillet mentre firma a Washington e piange, consapevole di cancellare con la terra inondata l’anima del suo popolo. Fu un crimine”. Dice poi: “Li abbiamo decimati, derubati della lingua, della religione, della terra, gli abbiamo ucciso quattro milioni di buffali e li abbiamo fatti morire di fame, gli abbiamo tagliato i capelli… in ogni modo abbiamo cercato di farli sparire… ma loro si sono rifiutati di diventare indiani bianchi. La loro resilienza, alla faccia della conquista, è la cosa più incredibile accaduta negli ultimi 250 anni di storia americana”.
Ma forse non è finita. Perché il clima cambia e anche il Missouri non è più la riserva d’acqua illimitata d’un tempo. Per i Chiwere era il fiume “delle grandi canoe”; oggi di chi è? Il governo federale chiede ai capitribù di quantificare il fabbisogno idrico delle riserve per pianificare un’eventuale ripartizione in caso di prolungata siccità, ma per gli indiani l’acqua non si può possedere, come non si possiede il cielo o il sole. Si rifiutano di sedersi a un tavolo dove ci si spartisce il Missouri. E così si decide senza di loro. Peggio per loro. E ora, dice Clay, è arrivato il bianco dai capelli arancione, Donald Trump, il candidato repubblicano che fa arrossire di vergogna anche “i conservatori di questa regione, che hanno un alto senso della decenza e odiano i tromboni”. Si riferisce al Trump biscazziere, all’ex re dei casinò che l’ha giurata alla nazione indiana, perché mentre lui andava in bancarotta con le sue Atlantic City, come ha raccontato Massimo Gaggi su Sette, loro sono arrivati a fatturare fino a 30 miliardi di dollari l’anno. Fu l’amministrazione di Ronald Reagan a concedere alle tribù la possibilità di aprire case da gioco nelle loro riserve, anche negli Stati dove il gioco d’azzardo è proibito, un tentativo di compensare i soprusi del passato. Oggi gestiscono 460 sale e distribuiscono parte dei dividendi direttamente fra i propri membri. “Gli indiani sono il più grosso scandalo dai tempi di Al Capone” ha detto Donald davanti al Congresso. “Se dovesse andare alla Casa Bianca” dice Jeff Kelly, Faccia d’Orso, ranger della riserva della Standing Rock Reservation mentre ci avviciniamo con la jeep ai buffali, “potrebbe vendicarsi, cancellare le concessioni. Proprio come l’uomo bianco fece un tempo con i nostri animali”. Oggi tutte le riserve indiane implementano programmi di ripopolamento della fauna che hanno ritrasformato questi territori in paradisi per i safari fotografici e la caccia: bufali, alci, cervi, anatre, linci, cani della prateria. Gli animali abbondano, ma il ricordo di quando l’uomo bianco aveva trasformato queste praterie in deserti è ancora fresco. Kelly ci racconta che, nella seconda metà dell’Ottocento, le pianure del Sud Dakota furono ricoperte per anni di cadaveri di bisonti. I bianchi che iniziavano a colonizzare quei luoghi li uccidevano solo per mangiarne la lingua, considerata una prelibatezza, e conciarne la pelle, lasciando le carcasse intere a marcire nei campi. Poi fra gli agricoltori si sparse la voce che le ossa di bufalo erano un ottimo fertilizzante. Allora arrivarono i bone-pickers, che raccoglievano gli scheletri per macinarli e venderli ai coltivatori in Ohio, Indiana, Michigan. Questi piccoli commercianti-avvoltoi ripulirono la prateria al punto che oggi trovare un osso di bisonte è raro e può valere oltre 200 dollari. Così, anche di quel simbolo della tradizione indiana, per anni non rimase più traccia. Fino a quando i nativi ripresero il controllo delle riserve e cominciarono a reintrodurre il bisonte, insieme con altre specie.

Il Grande Spirito della prateria ha gli occhi malinconici del vecchio Victor Douville, Shooting Cat III, storico della cultura Lakota alla Sinte Gleska University: “Siamo divisi. I nostri rappresentanti al Senato non si parlano, le tribù non si parlano. Le generazioni non si parlano. Stiamo ancora trattando con Washington la restituzione delle Black Hills, qui a ovest, le terre sacre per i Lakota espropriate dopo Little Bighorn. I vecchi vogliono la terra, 32mila chilometri quadrati, i giovani vogliono il denaro, un miliardo di dollari. Il materialismo ci sta rovinando… e le nostre divisioni autorizzano l’uomo bianco a non mantenere i patti”. Toro Seduto l’aveva capito. Sulla sua tomba nella riserva di Standing Rock, vicino a Mobridge, c’è una lapide con la sua celebre frase: “Quale accordo fatto con l’uomo bianco hanno rotto i Lakota? Nessuno. Quale accordo ha rispettato l’uomo bianco fra quelli fatti con i Lakota? Nessuno”.
Il Grande spirito, sette generazioni dopo, ha lo sguardo triste e implacabile della sua nipotina, la principessa Hanna Reddest, Cigno Bianco, 14 anni. “Secondo le profezie, la mia dovrebbe essere la generazione della nuova speranza” dice mentre si appresta a commemorare la morte di una parente in una Sun Dance a Fort Thompson: “Ma quel che vedo è depressione, alcol, metanfetamina, suicidi, materialismo. C’è tanta energia negativa”. Racconta che l’ottanta per cento delle famiglie nelle riserve vive il flagello della meth, la droga arrivata negli ultimi cinque anni con i cartelli messicani. Che molti suoi coetanei riscoprono la lingua (parlata oggi solo dal 10 per cento dei nativi) e le tradizioni, ma anche che ogni settimana nella nazione indiana un teenager se ne va: “Ho perso tanti amici, 12 solo tra febbraio e marzo. Pensano che il male finirà con loro, che ci sarà un effetto positivo. Ma quando ti uccidi e sei un Lakota non vai da nessuna parte, rimani per sempre tra due mondi, non incontri gli antenati. Sei ancora solo”. 



3/5 The River Journal Project
testo di Marzio G. Mian e Nicola Scevola
Foto di Nanni Fontana e Massimo Di Nonno
Pubblicato su Sette del Corriere della Sera 

Nessun commento: