L’odore si sente già uscendo da Dakota City
sulla highway verso la zona industriale. Rugginoso e dolciastro. Oltrepassate
le porte girevoli e una volta entrati nella reception della Tyson, il più
grande mattatoio del mondo - 400 manzi uccisi e squartati ogni ora - l’odore
del sangue inonda il cervello e ti fa vedere tutto rosso. Anche se tutto è
bianco, e dal di fuori l’impianto potrebbe essere un’immensa fabbrica di
frigoriferi. Impossibile entrare alla Tyson, è la Fort Knox della bistecca. Un
simbolo troppo forte che potrebbe fare gola soprattutto agli animalisti, che
nutrono un odio bestiale per questa catena di sgozzaggio, raccontata in Fast Food Nation da Eric Schlosser, che
riuscì a introdursi nell’impianto grazie a un operaio messicano il quale voleva
denunciare il “backstage” dell’hamburger, le condizioni di lavoro, il più
pericoloso e malpagato della catena alimentare americana.
Eric ha percorso a ritroso la filiera, dal filetto in vaschetta al manzo stordito e ucciso in pochi secondi con una coltellata all’aorta; quindi i lamenti spaventosi e il sangue che scorre impetuoso nei canali: “Ribolle come l’acqua fangosa nei rigagnoli di campagna durante un temporale estivo”.
Eric ha percorso a ritroso la filiera, dal filetto in vaschetta al manzo stordito e ucciso in pochi secondi con una coltellata all’aorta; quindi i lamenti spaventosi e il sangue che scorre impetuoso nei canali: “Ribolle come l’acqua fangosa nei rigagnoli di campagna durante un temporale estivo”.
Un caso che ricorda La Giungla, l’inchiesta di Upton Sinclair realizzata nel 1906 nel
mattatoio di Chicago: gli avanzi guasti che diventavano salsicce, tutto che
viene triturato e insaccato, compresa la carne caduta a terra dove gli operai
tubercolotici sputavano, comprese le frattaglie coperte di escrementi dei topi,
di veleno per topi e delle carcasse dei topi avvelenati. Quando chiuse Chicago
(gli impianti erano quasi in centro città), quest’angolo di Nebraska che
confina con l’Iowa si trasformò nel distretto mondiale della macellazione. In
un territorio di una ventina di chilometri lungo le sponde del Missouri River,
messi insieme i manzi e i polli di Dakota City con i maiali di Sioux City, si
lavora quasi la metà della carne degli Stati Uniti, dove ogni cittadino ne
mangia in media 125 chili l’anno, contro i 70 chili degli europei.
La
guerra dei manzi. Siamo infatti nel cuore del Granaio
d’America. Di erba nella prateria del Nebraska se ne vede poca. Mais, soia,
soia e mais. Una parte va in biofuel e il resto in pancia agli angus. Li chiamano
feedlot, sono le fattorie dove ingozzano i manzi, li “finalizzano”, e raggiungono
quasi ottocento chili in 145 giorni. Ve ne sono sei milioni e mezzo in questo Stato
che non arriva a due milioni di persone, 24 abitanti ogni dieci chilometri
quadrati. La contea di Stanton vanta la maggior concentrazione per chilometro
quadrato di bovini del Pianeta, perlopiù allevati dalle grandi corporation
quotate a Wall Street, perché l’America resta la superpotenza del bue, un giro
d’affari da 66 miliardi di dollari l’anno. “Noi siamo l’America!” s’infervora Josh
Alexander, giovane titolare di una delle poche aziende famigliari: da qui
arrivano al macello di Dakota City 12 mila cinquecento animali l’anno. “Siamo
noi che garantiamo cibo sulla tavola degli americani, la cultura delle città
sta distruggendo questo Paese”. S’arrabbia perché i feedlot sono sempre più nel
mirino, accusati di danneggiare la salute umana e dell’ambiente.
Josh dice che
un manzo allevato al naturale, per raggiungere la metà del peso di uno dei suoi
cresciuti a mais e soia, consuma il doppio di quintali di erba. “Noi siamo più
sostenibili, e anche la questione degli antibiotici… Tutte balle, prima di
andare al mattatoio vengono spurgati per bene”.
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Josh Alexander, allevatore di manzi in Nebraska |
Fa caldo, ci saranno quasi quaranta gradi. Dai
recinti arriva un tanfo acre che ricorda più gli allevamenti industriali di
maiali, il tradizionale letame di mucca al confronto profuma di eucalipto. “Ci
fanno la guerra” dice. “La popolazione mondiale cresce, come pensano di
nutrirla? A chilometro zero? La verità è che l’agricoltura è la spina dorsale
dell’identità americana, ma ci trattano come appestati. In campagna elettorale
senti qualcuno dire qualcosa sul futuro dell’America rurale?”
La "Val Trumpia". Eppure lontano dalle città, dalle università
sofisticate che dettano le idee, dai dibattiti elettorali dei grandi network
televisivi, qui nelle Grandi Pianure a Ovest del Missouri si fa largo un nuovo
genere d’agricoltore, difficilmente catalogabile. Reazionario e progressista
allo stesso tempo. Siamo in teoria nel “red country”, l’America rurale
repubblicana, ma in questo oceano di pannocchie e solitudine, si mettono in
dubbio molte certezze e il viaggiatore europeo resta spiazzato, costretto a
rivedere molti stereotipi. A cominciare dalla questione Ogm: mentre in Italia
cresce il movimento di coloro che accusano un clima di oscurantismo medievale
nei confronti della tecnologia genetica, nella prateria del Nebraska, lo Stato
della monocultura Ogm senza se e senza ma, definito “Monsanto-land”, avanza invece
l’eresia, prende corpo il dissenso agrario.
“Quello che mi disturba delle
grandi corporation, come Monsanto, Syngenta, Bayer è il loro strapotere di
influenzare il governo, di monopolizzare il mercato. Sono in grado di imporre
prodotti senza una valutazione scientifica davvero indipendente”, dice Scott
Kinkaid, quarta generazione di farmer ad Hartington, che praticamente da solo
coltiva 13 mila cinquecento acri di mais e soia, l’equivalente di quattromila
cinquecento campi di calcio. “Non ho nulla contro la tecnologia, anzi,
controllo la salute delle piante con un drone collegato direttamente a un
centro di ricerca… Ma penso che sugli Ogm in America sia arrivato il momento di
pretendere risposte indipendenti. Io sto diversificando, e verifico che la
produzione non Ogm è migliore, per qualità e quantità e il costo delle sementi è
più basso”. Scott ha cominciato a rosicchiare ettari al mais per produrre
luppolo biologico per i birrifici locali, uno dei fenomeni, quello delle birre
artigianali (quasi 4000 nel Paese), che viene preso ad esempio per raccontare
un’America di provincia sempre meno provinciale, che valorizza la smalltown comunity,
la vita di paese, la piccola comunità ritrovata, e cerca d’archiviare le
cosiddette “Apocalypse Town”, i centri devastati dal napalm consumistico, i
suburbia della corporate America.
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Scott Kinkaid, agricoltore di Hartington, NE |
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Tramonto sul Missouri River |
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Agricoltori al lavoro in una fattoria organica di Kansas City |
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I campi sono così estesi che spesso si usano aerei per irrorarli |
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Lo skyline di Kansas City si specchia nel fiume Missouri |
2/5 The River Journal Project
testo di Marzio G. Mian e Nicola Scevola
Foto di Nanni Fontana e Massimo Di Nonno
Pubblicato su Sette del Corriere della Sera
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