venerdì 2 settembre 2016

Saint Louis, la Sarajevo della guerra razziale

Il gateway Arch, simbolo di St Louis, MO
L’ondata di violenze a sfondo razziale che ha infiammato gli Stati Uniti è cominciata a Ferguson, sobborgo di Saint Louis, il 9 agosto del 2014 quando la polizia ha ucciso Michael Brown, ragazzo nero disarmato. Nei giorni successivi sono scoppiate le rivolte e il movimento Black Life Matters ha cominciato ad affermarsi, con l’escalation di molti casi simili in altre aree metropolitane nel Paese. 
Comincia dunque qui, dalla periferia di Saint Louis, l’alpha delle rivolte razziali moderne, il nostro viaggio in cinque puntate lungo il Missouri attraverso la cosiddetta Real America, l’America vera, quella che custodisce il mito della frontiera, lontano dalle grandi metropoli e dai riflettori della campagna elettorale. Questo viaggio fa parte di un progetto indipendente e multimediale che si chiama The River Journal Project e si propone di raccontare l’attualità e il contemporaneo attraverso i grandi fiumi del mondo.
Downtown St Louis
Dalla Old Cathedral a Old Market Street, dalla Old Courthouse a Union Station, vecchia anche lei, pietra calcarea e mattoni, in stile romanico che sembra di stare a Carcassonne. È lunedì mattina, ma la malinconia è quella di una domenica pomeriggio invernale, strade deserte, parchi deserti, musei deserti, compreso il nuovo museo del blues, balordi vagano con gli occhi spiritati, auto della polizia si muovono al rallentatore come cani da ferma … una cappa d’aria pesante e vischiosa schiaccia la città, forse è una colpa o forse una pena da pagare… Dov’è lo “spirito di Saint Louis”? Dovrebbe aggirarsi sotto il Gateway Arch, l’argentea capriola che domina la città e che vorrebbe essere l’ombelico d’America, l’arco d’acciaio da cui scoccare sempre nuove sfide e conquiste, saette di un popolo che qui a Saint Louis ha celebrato a lungo la sua missione eccezionale nella Storia. Lo spirito di St. Louis – la città piazzata alla confluenza del Missouri con il Mississippi, l’avamposto sul limes della prateria diventato avanguardia dell’espansione commerciale, culturale, militare e politica – è stato un perno geografico e identitario al centro del Paese, mozzo di una gigantesca ruota; non a caso si chiamava Spirit of Saint Louis il fragile velivolo con cui Charles Lindbergh si librò oltre l’Atlantico. “Qui, dove più si è affermato e più è radicato lo spirito d’America”, disse Theodore Roosevelt inaugurando la fiera universale di Saint Louis nel 1904, l’Expo con cui l’America dichiarò la sua volontà di potenza rivendicando il ruolo da protagonista del secolo. Tanto che l’evento fu dedicato alla spedizione di Lewis e Clark del 1804, l’impresa sulla quale gli Stati Uniti hanno fondato il mito della frontiera, e l’inizio dell’impero.
Il Missouri River con lo skyline di Kansas City, MO
La visione di Thomas. Gli Stati Uniti avevano appena acquisito dalla Francia i cosiddetti territori della Louisiana, a Ovest del Mississippi, un mondo sconosciuto all’uomo bianco, ad eccezione d’isolati avventurieri e cacciatori di castori; il presidente Thomas Jefferson, figlio del Settecento illuminista, l’uomo che più ha contribuito all’imprinting della neonata comunità-nazione, saldando la mistica del pionierismo permanente alla pianificazione politica e tecnologica del progresso, organizzò una missione militare per assicurare la presenza americana su quella vasta regione prima d’inglesi, francesi e spagnoli. L’incarico, affidato a un “commando” di 33 uomini guidati dagli ufficiali Meriwether Lewis e William Clark, aveva senz’altro anche scopi scientifici e naturalistici, ma essendo appunto una spedizione militare, obbediva a una logica d’espansione territoriale ed economica: risalendo il Missouri, il fiume che attraversa in diagonale il continente da Nord-Ovest, gli americani avrebbero stabilito rapporti commerciali con le tribù indiane, mappandone caratteri, rivalità e dominî, informazioni preziose per la successiva conquista; spingendosi ancora più a Nord-Ovest, fino all’Oregon, avrebbero piantato la bandiera in riva al Pacifico e quindi gettato le basi all’apertura ai mercati asiatici. E Saint Louis, la città-portale, fu l’alfa di quell’avventura americana nella Storia moderna. Lewis e Clark imboccarono il Missouri qualche miglio più a Nord del Gateway Arch, del downtown in terracotta, arenaria e ardesia, con i grandi palazzi disegnati da Louis Sullivan per l’aristocrazia imprenditoriale dei primi Novecento; partirono non molto distante dal quartiere tedesco, dagli stabilimenti della Budweiser e dai silos e mulini della Italgrani Usa, che trasforma il formidabile grano duro della prateria per i grandi marchi italiani degli spaghetti. Risalire il Missouri solo due secoli fa voleva dire superare quelle colonne d’Ercole che la civiltà occidentale, da Omero in poi, ha spostato sempre più a Ovest. Ed è partito da qui anche il nostro viaggio (vedi box) sulle tracce di quell’impresa, cinquemila chilometri controcorrente lungo il Missouri River per cercare di capire - da europei e italiani- cosa vuol dire essere americani oggi, nel mezzo di una campagna presidenziale che mostra un Paese in piena crisi identitaria, inquieto e lacerato. Perché questa regione del West attraversata dal Missouri, che dopo Saint Louis è perlopiù rurale, lontana dai riflettori dell’America metropolitana e sofisticata, anche se poco popolata e quindi elettoralmente poco rilevante, custodisce i miti fondanti, il Dna della nazione. L’abbiamo percorsa fino alle montagne del Montana, interrogata come una pizia.
Un incrocio su MLK Drive
Viale in bianco e nero. Oggi a Saint Louis la nuova frontiera si chiama Delmar Boulevard. Cinque miglia che dividono la città da Est – praticamente dal downtown – fino ai confini metropolitani a Ovest: i quartieri meridionali del viale sono all’80 per cento bianchi, quelli nella parte  settentrionale al 95 per cento neri. La chiamano Delmar divide, ed è diventata il simbolo dello scontro razziale nel Paese all’epoca del primo presidente nero, oggetto di corsi universitari e tesi di laurea. Le case a sud di Delmar valgono in media 400 mila dollari, quelle a nord 70 mila; da una parte il 70 per cento hanno conseguito un diploma, dall’altra il 10 per cento. “Volevate vedere il wild west?” chiede KP Dennis mentre sterza da Delmar verso nord, Page Boulevard. Siamo a poche centinaia di metri dal distretto dei teatri, delle gallerie d’arte, delle università private e del quartiere della boheme chic. È come usare il telecomando, improvvisamente, nel volgere di una manciata di secondi, siamo su un altro canale, un altro continente: case divorate dai rovi o distrutte da incendi, cani randagi, prostitute, gruppi di ragazzi strafatti sulle verande pencolanti, auto scassate che ci seguono e controllano. KP è un rapper, ha cambiato vita quando è scampato alla
Palazzo bruciato dalle parti di Delmar Boulevard
seconda imboscata, raffiche di semiautomatico. Ora è membro di Story Stitchers, un collettivo di artisti e attivisti impegnati nella lotta al possesso di armi da fuoco. “Qui si spara e si muore ogni notte” dice. “Non c’è più una sola scuola, gli unici negozi sono quelli di liquori. E poi chiese, quelle non mancano… Notate che non c’è nemmeno una bandiera? Il sogno americano è un incubo per chi vive qui”. Ed eccoci nel sobborgo di Ferguson, l’epicentro del terremoto che ha sconvolto la coscienza americana. In Canfield Drive un rettangolo nero pittato in mezzo alla strada grigia ricorda l’uccisione di Michael Brown, afroamericano di 19 anni, disarmato e ucciso dalla polizia il 9 agosto del 2014. “Rimase sull’asfalto per quattro ore, morì dissanguato”, racconta il rapper. Divamparono gli scontri, intervenne la guardia nazionale, i tank: “Sembrava di essere a Falluja, questa è la nuova Ground Zero d’America” dice KP. Nel Paese cominciò un’incredibile sequenza di uccisioni di giovani neri da parte di poliziotti bianchi, con conseguenti scontri in città dove la tensione covava da anni, Baltimora, Chicago, Cleveland… E poi stragi come quella di Charleston, Sud Carolina, 9 neri uccisi in una chiesa metodista da parte di Dylann Roof, 21 anni bianco. Voleva scatenare “la guerra di razza” disse.
MLK Drive, una delle vie più pericolose di St Louis
Le legge del grilletto. Lo chiamano “effetto Ferguson”. Anche l’Fbi ora ammette che nei quartieri metropolitani dove è scoppiata la guerriglia contro i cops dal grilletto facile, la polizia sotto accusa si è ritirata, lascia che nei ghetti s’arrangino, s’ammazzino pure tra loro.
“Le statistiche sugli arresti dimostrano che è successo a Baltimora come a Chicago”, conferma Richard Rosenfeld, criminologo dell’Università del Missouri. “A St Louis, invece, i dati sembrano più che altro indicare che, dopo gli incidenti di Ferguson, la comunità afroamericana ha perso quel poco di fiducia che aveva nella polizia, rinunciando a sporre denunce o a collaborare con le indagini. E preferendo farsi giustizia direttamente da se’”.

Il risultato è che gli arresti sono quasi dimezzati e i morti raddoppiati, molti ora non vengono nemmeno denunciati. E Saint Louis è diventata la città più violenta d’America, la quattordicesima nel mondo, 188 morti ammazzati nel 2015 oltre la Delmar divide. Qui il fronte si chiama Martin Luther King Drive. Un paesaggio di rovine a due passi dalle ville patrizie, dalle magioni in stile palladiano, dai college tra i più prestigiosi d’America. “Benvenuti a Beirut”, dice Melvin White, ex postino che ha fondato una Ong per salvare le strade intitolate a MLK nel Paese, a cominciare da questa: “Ho visitato 40 città e ovunque la MLK è la via più pericolosa e degradata. Qui si spara giorno e notte,
Un drappo con i volti di vittime recenti di violenza armata
abbiamo avuto circa 800 persone sparate dall’inizio dell’anno, oltre ottanta morti. Queste auto che ci passano davanti sono tutte piene di armi. Comandano le gang, i Creeps, i Bloods, i cartelli messicani hanno il monopolio sulla droga, le dosi costano solo 5 dollari”. Lyndon McCoy ha 20 anni, era dei Creeps, solleva i pantaloni e mostra i segni di quattro colpi di AK47 alla gamba destra. “Ne sono uscito” racconta. “Qui a 14 anni si gira armati. Pensate cosa può produrre il mix di povertà, droga e l’accesso a qualsiasi arma immaginabile…”. Racconta che l’anno scorso era al parco con un’amica e il suo figlioletto. Sono arrivati due ragazzi e hanno cominciato a sparare con le mitragliette, cercavano di giustiziare qualcuno, sul terreno è rimasta l’amica di Lyndon, teneva ancora per la mano il piccolo. “I proiettili non hanno nome. Il problema principale sono le armi in circolazione, ci sono più armerie che biblioteche” dice il ragazzo.

Manifestazione per il Gun Awareness Day a St Louis
Il richiamo del Sud. Saint Louis e lo stato del Missouri sono così improvvisamente un caso politico e culturale. “Qui il razzismo è stato un tabù più che in qualsiasi parte d’America” dice Tony Messenger commentatore del Saint Louis Post Dispatch. “Il Missouri è stato l’ultimo Stato ad abolire la schiavitù, Saint Louis l’unica città con una consistente comunità afroamericana a non vivere la stagione delle rivolte alla fine degli anni Sessanta. In teoria apparteniamo al Midwest, ma il cuore batte a sud, qui la guerra civile non è stata ancora metabolizzata…Una pentola a pressione che doveva scoppiare”. In Missouri è appena passata una legge per rendere ancora più accessibile il possesso di armi da fuoco nel nome del secondo emendamento della Costituzione, quello usato proprio come un’arma dai nemici del gun control all’indomani di ogni strage. Incontriamo Sam Dotson, capo della polizia di Saint Louis a un raduno di protesta contro il dilagare delle armi. Non si sottrae alla questione, dopo Ferguson ha acquisito visibilità nazionale e ambizioni politiche: “Nel Duemila c’erano 250 milioni di armi nel Paese, ora sono 350 milioni, più armi che abitanti. Tuttavia è difficile dire se la violenza sia dovuta alla quantità di armi in circolazione o alla quantità di criminali in circolazione…”
Less Ray con un'amica a una fiera a Jefferson City, MO
L'amico schioppo. Saint Charles era un borgo cattolico di cacciatori di pelli franco-canadesi. Fu la prima tappa importante della spedizione di Lewis & Clark lungo il Missouri river. E aiuta a spiegare la simbiosi tra gli americani e le armi. Un legame nato dalla necessità di difendersi contro i pericoli dell’ignoto oltre la frontiera. Qui venne caricato sulla nave l’arsenale fatto costruire apposta da Lewis ad Harpers Ferry, in West Virginia. Fu una delle prime raccomandazioni di Thomas Jefferson nella celebre lettera d’incarico a Lewis: “Mai un passo senza il fucile”. E al padre di quell’impresa fondativa della nazione è intitolata la prima cittadina che incontriamo lungo il fiume. Siamo ancora nello stato del Missouri, e non riusciamo ad abbandonare il fil rouge di questo primo tratto di strada. Nel parco troviamo accampati un centinaio di figuranti in costume che celebrano l’epopea pionieristica e della frontiera, in un tripudio di schioppi. Less Ray è un militare in pensione, si è sparato le due guerre del Golfo, è vestito da cacciatore di castori, sembra una comparsa di The Revenant: “Secondo me di armi non ce ne sono abbastanza, il problema è il sistema giudiziario, mancano le pene adeguate, chiudono addirittura prigioni come quella…” Indica la Jefferson City Prison, che guarda il fiume. La chiamavano “the bloodiest”, era la più crudele del Paese, famosa per le camere a gas e i sotterranei degni dei Piombi di Venezia. Uno dei pochi a evadere fu James Earl Ray, uscito in una delle grandi ceste di pane che veniva cotto nei forni della prigione e distribuito in città: a pochi mesi dalla fuga, Ray divenne famoso nel mondo per aver assassinato Martin Luther King.

1/5 The River Journal Project
testo di Marzio G. Mian e Nicola Scevola
Foto di Nanni Fontana e Massimo Di Nonno
Pubblicato su Sette del Corriere della Sera 




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