L’incontro è avvenuto mentre il tramonto dava il meglio di sé sulle Badlands,
le Mako Sika per i Sioux, “terre cattive” nell’Ovest del Nord Dakota. Si saliva
lungo un costone color ocra scolpito dal vento, nel mezzo di un complesso di
canyon e calanchi che ricordano le formazioni aspre di Aliano in Basilicata; fiancheggiavamo
una delle poche vallate dolci che montano dalla prateria e che raccontano in 4D
come qui ci fosse l’oceano: davanti a noi, al margine della carreggiata il
bisonte, fermo come un grande masso di onice appena uscito dalle profondità,
ancora imbrattato di terra, il testone rivolto verso l’auto. Il lampeggio degli
occhi non c’illumina sulle sue intenzioni, potrebbe essere curiosità, ma anche
una luna storta. Gli indiani Lakota ci avevano avvertito che quando ingobbiscono
la coda è meglio essere a una cinquantina di passi perché possono aver preso la
decisione di caricare a razzo. Sappiamo anche che i bisonti di ragioni per
caricare ne hanno almeno quattro milioni, quanti più o meno ne sono stati
eliminati dall’uomo bianco in una ventina d’anni nella seconda metà dell’Ottocento;
con calma e pudore ci allontaniamo dalla sua primordiale e sacrosanta solitudine.
E pensiamo quanto sia intrigante il rapporto tra gli americani e la wilderness.
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giovedì 10 novembre 2016
La macchia nera di Williston
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venerdì 16 luglio 2010
Toh, nell'orto c'è il petrolio

Pubblicato su IO DONNA:
Shelley Aadnes osserva da lontano la villa che sta costruendo insieme al marito nella campagna di Stanley, un paese di 1300 abitanti sperduto nelle immense pianure del Nord Dakota.
“All’inizio volevamo costruire una capanna di legno per l’estate”, dice misurando con lo sguardo il perimetro di quella che sarà una reggia da cinque stanze da letto, cinque bagni e dependance per gli ospiti. “Poi abbiamo scoperto il petrolio sulla nostra terra e il progetto è cambiato”.
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