![]() |
Giacomo Chiari del Getty Conservation Institute |
Pubblicato su Uomo Vogue:
Hanno studiato chimica e usano strumenti che sembrano usciti da film di fantascienza. Ma lavorano nel campo dell’arte e applicano le loro tecniche a vestigia del passato. Sono gli scienziati della conservazione, che con le loro analisi aiutano i restauratori a prendersi cura dei nostri patrimoni culturali. Un ruolo a metà strada fra quello dell’inventore e quello del detective. In cui gli italiani riescono particolarmente bene, tanto da essere ai vertici dei dipartimenti di Scienze della conservazione dei più importanti musei degli Stati Uniti.
“Negli ultimi dieci anni c’è stata un’esplosione d’italiani che sono migrati negli Stati Uniti per lavorare in questo campo”, dice Marco Leona, direttore del dipartimento di conservazione del Metropolitan Museum di New York. Il museo vanta il più grande team di ricercatori e restauratori del mondo e Leona, nato a Ivrea e formato presso l’università di Pavia, ne coordina il lavoro da più di sei anni.
Il primo italiano ad occupare un posto di rilievo in uno dei più importanti istituti americani è stato Giacomo Chiari, chimico di origini torinesi che oggi dirige il dipartimento di Scienze del Getty Conservation Institute di Los Angeles. In Italia, Chiari lavorava all’Istituto di Mineralogia di Torino, dove per trent’anni ha dovuto dividere il suo tempo fra analisi dei cristalli e la sua vera passione, l’analisi delle opere d’arte del passato.
“Quando alla fine degli anni Sessanta cominciai a viaggiare per studiare le rovine archeologiche nel mondo, i miei colleghi in Italia mi consideravano un po’ strano”, ricorda Chiari. “Oggi i tempi sono cambiati, ma la figura dello scienziato che si occupa d’arte non ancora è del tutto accettata”.
Questo non vuol dire che da noi manchino le eccellenze, al contrario. E il fatto che molti finiscano a dirigere prestigiosi istituti all’estero ne è la dimostrazione. Rispetto agli Stati Uniti, però, la ricerca in Italia è poco finanziata e si sviluppa quasi esclusivamente all’interno delle università. Salvo rari casi, manca un coordinamento con le sovraintendenze che gestiscono il patrimonio artistico. Negli Stati Uniti, invece, i musei sono i principali promotori della ricerca. Questo crea una sinergia fra scienziati, restauratori, archeologi e storici dell’arte.
“In Italia il ruolo dello scienziato rimane più separato rispetto alle professioni umanistiche”, osserva Francesca Casadio, 38enne torinese, responsabile del Dipartimento scientifico dell’Art Institute di Chicago. “Con il rischio che si continui a parlare lingua diverse”.
Passare dallo studio della tavola degli elementi a quello di un quadro impressionista, potrebbe sembrare un grande salto.
In realtà, gli ambiti si complementano. L’analisi scientifica dei materiali che compongono un’opera è fondamentale per restaurarla, studiarne l’attribuzione e il deterioramento. “Molti dei problemi di conservazione dei beni culturali derivano da restauri sbagliati”, dice Chiari. “Non conoscendo a fondo le proprietà dei materiali, un tempo i restauratori facevano ciò che potevano”.
Ad esempio, si tendeva ad imbragare con strutture rigide i dipinti realizzati su tavole di legno per evitare che s’imbarcassero. Questo, però, alla lunga creava tensioni fortissime nel legno che rischiavano di far saltare definitivamente il colore dalle tavole.
“I materiali racchiudono la storia delle opere d’arte, ma bisogna saper fare le domande giuste”, dice Chiari.
Per la natura del lavoro e le apparecchiature modernissime che usano, questi scienziati sono spesso paragonati ai detective di CSI.
“Anche i soggetti che analizziamo noi sono quasi sempre già morti”, scherza Casadio.
Ed è capitato che il ministero della Giustizia finanziasse in parte le ricerche degli scienziati della conservazione.
“Alcune tecniche di analisi di documenti o di tessili pensate per le opere d’arte possono essere utili anche sulla scena di un delitto”, dice Leona, che in passato ha collaborato con i laboratori criminologici della CIA e della polizia di New York.
Pur concentrandosi sull’analisi dei materiali che compongono un’opera, il lavoro degli scienziati non si limita a migliorarne la preservazione.
“Spesso le nostre ricerche portano anche ad una conoscenza più approfondita dell’artista”, dice Casadio “E allora usciamo dai laboratori facendo gridolini di gioia”.
La ricercatrice ha recentemente firmato uno studio su una vernice usata da Picasso, il Ripolin, che rivela come il pittore spagnolo sia stato un precursore anche nell’uso di materiali industriali, divenuti poi comuni in artisti successivi come Jackson Pollock.
Leona ha scoperto invece che il pittore Hokusai fu il primo artista giapponese ad utilizzare il blu di Prussia, un colore che in Oriente era utilizzato esclusivamente dagli stampatori. Questo ha rivelato un carattere di sperimentatore dell’artista prima ignorato. E ha permesso di rivalutare l’esperienza fatta in gioventù da Hokusai presso un’officina di stampatori, dove probabilmente imparò ad usare questo colore.
Grazie ad una particolare macchina fotografica, Chiari, che con il GCI ha concentrato parte dei suoi sforzi sul sito archeologico di Ercolano, ha scoperto la presenza di dettagli eseguiti con il Blu Egiziano invisibili ad occhio nudo. Questo ha permesso di comprendere meglio le tecniche utilizzate dagli artisti del tempo. Il lavoro di conservazione ed analisi del sito di Ercolano, fatto sotto il coordinamento del Packard Humanities Institute e della Sovrintendenza di Napoli e Pompei, illustra i vantaggi dell’approccio multidisciplinare. Chiari, però, mette in evidenza quanto sia difficile accudire all’enorme patrimonio italiano che andrebbe valorizzato, ma che in tempi di crisi non riceve i fondi necessari.
“E’ un peccato perché maggiori investimenti porterebbero ad un ritorno economico in termini di sviluppo del turismo”, dice.
Casadio, invece, è meno restia a esprimere il suo disappunto per la situazione nel suo paese.
“In Italia il problema è endemico, al punto da diventare una questione di valori”, dice senza mezzi termini. “I beni culturali sono quello che ci distingue dalle bestie: disporre di una struttura per mantenerli dovrebbe essere una priorità”.
Nessun commento:
Posta un commento