venerdì 1 aprile 2011

Cervelli al Rientro

Partirti per curiosità, non per disperazione. E poi tornati. Ma cosa aspetta i cervelli che rientrano in Italia?

Pubblicato su Uomo Vogue:
“I giovani devono partire, ma per curiosità non per disperazione. E poi devono tornare”. Così l’architetto Renzo Piano consigliava a chi, in una recente intervista, gli chiedeva se fosse preferibile restare in Italia o andarsene.
Molti di quelli che hanno seguito il suggerimento dell’architetto genovese, rientrato in Italia solo dopo essersi affermato oltralpe, sembrano però averlo ascoltato solo per metà. Gli emigranti nel nostro paese sono in continuo aumento, come dimostra un recente studio pubblicato dalla Fondazione Migrantes. Il bilancio dell’emorragia è in crescita e gli espatriati sono quasi un milione in più rispetto al 2006. Nonostante l’idea di abbandonare il paese sembra quindi sempre più in voga, c’è anche chi decide di andare controcorrente, rientrando dopo un soggiorno più o meno lungo all’estero. Soprattutto se impegnate nel campo della ricerca scientifica, però, queste mosche bianche risultano essere piuttosto critiche della situazione che ritrovano in patria.

“In Italia esistono piccole realtà d’eccellenza, ma la situazione in generale è pessima”, dice Valentina Bosetti, ricercatrice 37enne rientrata l’anno scorso dagli Stati Uniti dopo aver vinto una borsa del European Research Council per studiare soluzioni per la mitigazione del cambiamento climatico. “Lo dimostra il fatto che la maggior parte degli italiani che ottengono questi fondi decidono di spenderli all’estero”.

Bosetti è rientrata in Italia perché desiderava avere un secondo figlio e, lavorando a tempo pieno, sentiva di aver bisogno “di avere intorno una forte rete sociale”.

Il premio vinto la qualifica come uno dei migliori fra i “cervelli” di cui spesso si lamenta la fuga. Nonostante ciò, all’interno del sistema universitario italiano Bosetti non ha trovato alcun riconoscimento ed ha quindi preferito sviluppare la sua ricerca nel privato, presso la Fondazione Mattei.

L’assenza di meritocrazia è stata sperimentata in prima persona anche da un altro professionista rientrato in Italia dopo un soggiorno all’estero. Marco Lanzetta, medico 48enne specializzato in chirurgia della mano, ha trascorso sei anni fra Australia, Canada e Francia, dove nel 1998 è stato membro della prima equipe al mondo che ha sperimentato con successo il trapianto di questo organo. Quando però si è trattato di passare un concorso pubblico per diventare professore universitario in Italia, questi meriti professionali non sono stati riconosciuti. E, nonostante vari interventi della giustizia amministrativa abbiano riconosciuto al medico tutte le qualifiche per diventare ordinario, la situazione non si è mai sbloccata.

“Per trovare la mia strada ho dovuto abbandonare ospedale e università e dedicarmi alla professione privata”, dice Lanzetta, che oggi dirige un centro di chirurgia della mano a Monza.

Mancanza di competitività e sopravvivenza di vecchi clientelarismi sono le caratteristiche che colpiscono maggiormente chi ha avuto esperienze professionali fuori dai confini. E il giudizio non cambia, anche fra gli esterni che poi sono riusciti ad entrare nel sistema universitario nostrano.

“Da noi nessuno è premiato per i successi ottenuti nella ricerca”, dice Davide Corona, scienziato dell’ateneo di Palermo che ha lavorato nove anni fra Germania e Stati Uniti. “E nessuno paga se opera male”.

Nonostante tutto, Corona si reputa fortunato di essere tornato a lavorare a Palermo, sua città natale. L’occasione si è presentata nel 2005 grazie a due borse distinte assegnategli dalla Fondazione Telethon-Dulbecco e Armenise-Harvard mentre lavorava in California. “Mi sentivo un esilio forzato e senza quei premi non sarei mai potuto rientrare”. 

Da un punto di vista scientifico, Corona è soddisfatto. I fondi ottenuti gli garantiscono una certa indipendenza e la sua ricerca non è stata penalizzata dal rientro. “Dovunque fossi non credo potrei fare meglio”.

Rimane però la delusione nei confronti dell’ambiente accademico. “E’ un sistema malato e, se tenti di cambiarlo, ti senti solo più isolato”.

Fortunatamente, se ci si allontana dal campo della ricerca scientifica, il giudizio sulla situazione italiana degli espatriati che hanno seguito il consiglio di Piano per intero appare meno critico. E, pur riconoscendone i difetti, pochi risultano talmente scoraggiati da pensare di rifare le valige.
“C’è poca flessibilità nei contratti, ma i talenti non mancano”, dice Fabrizio Capobianco, fondatore di Funambol, software-house di successo basata a Silicon Valley. L’imprenditore è talmente convinto delle potenzialità della nostra forza lavoro che, al posto di reclutare i suoi programmatori nella capitale mondiale della tecnologia, ha preferito farlo a Pavia, dove ha creato il centro sviluppo della sua azienda con 45 ingegneri. “In Italia siamo altrettanto bravi, ma lavoriamo di più, costiamo meno e siamo più fedeli all’azienda”.
E alle opportunità del presente, c’è anche chi somma speranze per un miglioramento futuro. “E’ una realtà piuttosto ferma, ma vedo ampi margini di miglioramento”, dice Tommaso Fantoni, architetto rientrato dopo aver lavorato 10 anni fra Inghilterra e Usa per lo studio di Norman Foster. “D’altronde, per progettare sistemi urbani volti a migliorare la qualità della vita occorre una buona dose di ottimismo”.


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