giovedì 17 marzo 2011

I Tesori Nascosti di Philippe Halsman


Pubblicato su Vogue:
“Chiunque può fotografare, ma pochi sono in grado di catturare l’essenza di una persona”. Rivelare l’anima dei soggetti ritratti, abbattendo la maschera che spesso ne nasconde la vera natura è sempre stato l’obiettivo principale di Philippe Halsman, uno dei maggiori esperti in ritratti della storia della fotografia. E questo, secondo la figlia Irene, era ciò che il fotografo di origini lettoni amava ripetere quando gli si chiedeva cosa distinguesse il suo lavoro da quello dei suoi colleghi.
Autore di oltre cento copertine per Life ed altre riviste come Vogue, Paris Match e Look, Halsman aveva una capacità speciale di comunicare con le persone per convincerle aprirsi davanti al suo obiettivo.
“In fotografia era un autodidatta, ma s’ispirò molto ad autori come Freud, Dostoevskij e Tolstoj, di cui apprezzava l’introspezione psicologica”, ricorda la primogenita del fotografo ebreo scomparso alla fine degli anni Settanta.
Per illustrare la capacità di Halsman di cogliere le persone nella loro intimità, Irene ci mostra un ritratto di Humphrey Bogart in cui l’attore, al posto del solito atteggiamento da duro, appare vulnerabile e fragile. E un altro, formato da due immagini giustapposte in cui il duca e la duchessa di Windsor appaiono prima nella posa distaccata tipica dei ritratti ufficiali e poi in un’altra più addolcita.
“Per far emergere il lato più umano della coppia, mio padre raccontava di aver ricordato al duca che quella al suo fianco era la donna per cui aveva rinunciato al trono”.
Un altro trucco ideato dal fotografo per cogliere la personalità dei suoi soggetti consisteva nel chiedere loro di spiccare un salto davanti alla camera. La tattica si rivelò così efficace, che Halsman finì col pubblicare un libro di ritratti di personaggi famosi immortalati a mezz’aria.
“Chiedendo alla gente di saltare, si sposta la loro attenzione. Questo fa cadere la maschera e lascia emergere la vera persona”, diceva il fotografo.
Halsman cominciò a fotografare all’età di 15 anni con una macchina ereditata dal padre dentista. Ma la sua rimase solo una passione da dilettante fino quasi alla fine dell’università, quando un tragico episodio segnò una svolta definitiva nella sua vita. Era la fine degli anni Venti e Halsman studiava ingegneria elettrica a Dresda quando il padre gli propose di andare in gita sulle Alpi austriache. Durante una passeggiata, quest’ultimo morì in un incidente. Ma nel clima antisemita dell’epoca, le autorità incolparono il giovane Halsman di parricidio.
“Fu una sorta di caso Dreyfus in versione austriaca”, ricorda la figlia. “E solo l’intervento d’intellettuali dell’epoca consentì la riapertura del caso e scarcerazione di mio padre dopo due anni di prigione”.
In seguito alla vicenda, Halsman decise di raggiungere la sorella che si era trasferita a Parigi. E invece che completare gli studi, cominciò a dedicarsi alla fotografia, specializzandosi nella ritrattistica e ispirandosi al movimento artistico surrealista.
Per affermarsi definitivamente, però, il fotografo dovette attendere lo sbarco negli Stati Uniti, avvenuto all’indomani dell’invasione nazista della Francia. Grazie all’intercessione di Albert Einstein, amico della sorella, ottenne un visto per raggiungere la moglie francese, che nel frattempo si era trasferita a New York. Quello di Halsman è sempre stato un business di famiglia: la moglie faceva da assistente e la sorella da manager; ora una figlia gestisce il suo archivio e il nipote cura la parte editoriale, selezionando le foto meno note del nonno, da cui ha recentemente tratto il libro Unknown Halsman.
Nel giro di due anni dall’arrivo in Usa, il fotografo divenne uno dei più richiesti del momento, guadagnando il soprannome di “psicologo dei ritratti”.
In questo fu aiutato anche dall’amicizia con Salvador Dalì con cui sviluppò una collaborazione trentennale, dopo averlo conosciuto sul set fotografico all’inizio degli anni Quaranta.
“Philippe era affascinato dal movimento surrealista e con Dalì si trovò subito a suo agio”, ricorda la figlia Irene. “Condividevano lo stesso genere di follia”.


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