martedì 12 febbraio 2013

Usa: il lusso punta sugli sport di massa

Non più solo golf e vela. 
Per i brand high-end i più richiesti 
sono i campioni "popolari"

Entrando nel palazzetto di basket dei Miami Heat, la scorsa stagione i tifosi hanno trovato una sorpresa: al posto delle solite foto dei giocatori in pantaloncini e magliette, i tifosi hanno trovato una gigantografia dei cestisti in smoking e scarpe firmate. Con le due stelle della squadra, Dwyane Wade e LeBron James, che portavano al polso orologi Audemars Piguet e Hublot.
Negli Stati Uniti, i brand di lusso hanno sempre associato i loro nomi a sport d’elite come il golf e la vela, trascurando le discipline da stadio, considerate troppo popolari e fuori target. Negli ultimi anni, invece, anche i marchi high-end hanno iniziato a investire in discipline come basket, baseball e football.
“La tendenza si è definitivamente affermata con l’arrivo di David Beckham ai Los Angeles Galaxy”, dice Doug Shabelman, presidente di Burns, società specializzata in endorsement di atleti e personaggi dello spettacolo. “Il calciatore inglese ha dimostrato che le potenzialità di un campione di sport popolari vanno ben oltre la capacità di pubblicizzare attrezzature sportive e bibite energetiche”.

Rispetto alle stelle del cinema, da sempre corteggiate dai marchi del lusso, gli atleti costano meno e garantiscono un’esposizione più frequente. Nella migliore delle ipotesi, Brad Pitt può interpretare tre film l’anno, mentre un giocatore di baseball gioca 162 partite a stagione.
Associare brand eleganti ai protagonisti degli sport di massa giova anche a quest’ultimi, che sfruttano l’opportunità per costruirsi un network di contatti e un’immagine più esclusiva.
“Più che per il mero profitto, solitamente decido se accettare una sponsorizzazione in base all’immagine che il marchio rappresenta e alle connessioni che mi può offrire”, dice Danilo Gallinari, stella del basket dei Denver Nuggets e testimonial di Iceberg. “Alle ultime sfilate ho conosciuto gente come Beyoncé, Jay Z e Elenoire Casalegno”.
Il vantaggio reciproco per atleti e aziende ha fatto in modo che il mercato americano delle sponsorizzazioni sportive rimanesse florido anche durante l’ultima crisi economica. E le stime prevedono che continuerà a crescere almeno fino al 2015.
L’avvento dei social media e l’ondata di celebrità provenienti dai reality show e da internet hanno però contribuito a cambiare la natura di queste sponsorizzazioni.
“Anche gli atleti hanno subito un fenomeno di “kardashianizzazione” in cui la visibilità conta quasi quanto i risultati ottenuti sul campo”, sottolinea Venanzio Ciampa, direttore di Promotion Factory, agenzia di comunicazione newyorkese che ha collaborato con Steve Nash e Shaquille O’Neal.
Oggi, una delle prime domande che un pubblicitario americano si fa prima di contattare uno sportivo è: quanti followers ha? Inoltre, è normale che un contratto di sponsorizzazione preveda un numero minimo di cinguettii da inviare e la frequenza con cui aggiornare Facebook.
Costruirsi una base solida di fan sui social media richiede un impegno che a volte è incompatibile con la dedizione richiesta ai professionisti dello sport. Chi riesce, però, ha un potenziale enorme per gli sponsor, anche quando si tratta di discipline di nicchia. La capillarità dei social media non ha bisogno di grandi mezzi come la televisione o i giornali per raggiungere il consumatore. E permette anche allo skatebordista ignoto al grande pubblico di raggiungere un numero di tifosi interessati a certi prodotti.
Questa connessione diretta, però, presenta anche qualche svantaggio. Mentre un tempo era facile per gli sponsor filtrare i messaggi dei testimonial, oggi questo non è più possibile. Basta pensare alla foto di Michael Phelps che fuma marijuana circolata online o alla battuta razzista tweetatta da un membro della squadra olimpica greca che le è costata la squalifica.
“Ai tempi di Michael Jordan qualsiasi messaggio era concordato con gli sponsor”, conclude Shabelman. “Oggi basta una leggerezza di uno sportivo per mandare in fumo una campagna”. 

Pubblicato su L'Uomo Vogue

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