Non più solo golf e vela.
Per i brand high-end i più richiesti
sono i campioni "popolari"
Entrando nel palazzetto di basket dei Miami Heat, la scorsa stagione i tifosi hanno trovato una sorpresa: al posto delle solite foto dei giocatori in pantaloncini e magliette, i tifosi hanno trovato una gigantografia dei cestisti in smoking e scarpe firmate. Con le due stelle della squadra, Dwyane Wade e LeBron James, che portavano al polso orologi Audemars Piguet e Hublot.
Per i brand high-end i più richiesti
sono i campioni "popolari"
Entrando nel palazzetto di basket dei Miami Heat, la scorsa stagione i tifosi hanno trovato una sorpresa: al posto delle solite foto dei giocatori in pantaloncini e magliette, i tifosi hanno trovato una gigantografia dei cestisti in smoking e scarpe firmate. Con le due stelle della squadra, Dwyane Wade e LeBron James, che portavano al polso orologi Audemars Piguet e Hublot.
Negli Stati Uniti, i brand di lusso hanno
sempre associato i loro nomi a sport d’elite come il golf e la vela,
trascurando le discipline da stadio, considerate troppo popolari e fuori
target. Negli ultimi anni, invece, anche i marchi high-end hanno iniziato a
investire in discipline come basket, baseball e football.
“La tendenza si è definitivamente
affermata con l’arrivo di David Beckham ai Los Angeles Galaxy”, dice Doug
Shabelman, presidente di Burns, società specializzata in endorsement di atleti
e personaggi dello spettacolo. “Il calciatore inglese ha dimostrato che le
potenzialità di un campione di sport popolari vanno ben oltre la capacità di
pubblicizzare attrezzature sportive e bibite energetiche”.
Rispetto alle stelle del cinema, da sempre
corteggiate dai marchi del lusso, gli atleti costano meno e garantiscono
un’esposizione più frequente. Nella migliore delle ipotesi, Brad Pitt può
interpretare tre film l’anno, mentre un giocatore di baseball gioca 162 partite
a stagione.
Associare brand eleganti ai protagonisti
degli sport di massa giova anche a quest’ultimi, che sfruttano l’opportunità
per costruirsi un network di contatti e un’immagine più esclusiva.
“Più che per il mero profitto, solitamente
decido se accettare una sponsorizzazione in base all’immagine che il marchio
rappresenta e alle connessioni che mi può offrire”, dice Danilo Gallinari,
stella del basket dei Denver Nuggets e testimonial di Iceberg. “Alle ultime
sfilate ho conosciuto gente come Beyoncé, Jay Z e Elenoire Casalegno”.
Il vantaggio reciproco per atleti e
aziende ha fatto in modo che il mercato americano delle sponsorizzazioni
sportive rimanesse florido anche durante l’ultima crisi economica. E le stime
prevedono che continuerà a crescere almeno fino al 2015.
L’avvento dei social media e l’ondata di
celebrità provenienti dai reality show e da internet hanno però contribuito a
cambiare la natura di queste sponsorizzazioni.
“Anche gli atleti hanno subito un fenomeno
di “kardashianizzazione” in cui la visibilità conta quasi quanto i risultati
ottenuti sul campo”, sottolinea Venanzio Ciampa, direttore di Promotion
Factory, agenzia di comunicazione newyorkese che ha collaborato con Steve Nash
e Shaquille O’Neal.
Oggi, una delle prime domande che un
pubblicitario americano si fa prima di contattare uno sportivo è: quanti
followers ha? Inoltre, è normale che un contratto di sponsorizzazione preveda
un numero minimo di cinguettii da inviare e la frequenza con cui aggiornare
Facebook.
Costruirsi una base solida di fan sui
social media richiede un impegno che a volte è incompatibile con la dedizione
richiesta ai professionisti dello sport. Chi riesce, però, ha un potenziale
enorme per gli sponsor, anche quando si tratta di discipline di nicchia. La
capillarità dei social media non ha bisogno di grandi mezzi come la televisione
o i giornali per raggiungere il consumatore. E permette anche allo
skatebordista ignoto al grande pubblico di raggiungere un numero di tifosi
interessati a certi prodotti.
Questa connessione diretta, però, presenta
anche qualche svantaggio. Mentre un tempo era facile per gli sponsor filtrare i
messaggi dei testimonial, oggi questo non è più possibile. Basta pensare alla
foto di Michael Phelps che fuma marijuana circolata online o alla battuta
razzista tweetatta da un membro della squadra olimpica greca che le è costata
la squalifica.
“Ai tempi di Michael Jordan qualsiasi
messaggio era concordato con gli sponsor”, conclude Shabelman. “Oggi basta una
leggerezza di uno sportivo per mandare in fumo una campagna”.
Pubblicato su L'Uomo Vogue
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