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Foto by Tom Munro |
Negli Stati Uniti il cognome Olsen è
sempre stato associato alle gemelle Mary-Kate e Ashley, ex enfant prodige della televisione anni Novanta che hanno fatto un
marchio della loro immagine ancora prima di diventare maggiorenni. Questo fino
all’arrivo della sorella minore di casa Olsen, Elizabeth, che con una serie di
ottime interpretazioni sul grande schermo negli ultimi due anni ha eclissato la
fama delle gemelle.
Anziché imitare le sorelle, che hanno
cominciato ad apparire in telefilm per ragazzi prima ancora di perdere i denti
da latte, Olsen preferisce ritardare il debutto sul palcoscenico dopo il liceo,
concentrandosi sulla formazione. Studia recitazione fin dalle elementari e,
dopo scuola, frequenta spesso il set seguendo le gemelle al lavoro. Ma per anni
resta tranquillamente nell’ombra.
“Capitava che Mary-Kate e Ashley mi
chiedessero di partecipare alle loro scene: mi mettevano davanti alle
telecamere e mi riempivano i capelli di chewing-gum”, ricorda ridendo l’attrice
24enne. “Io, invece, sognavo d’interpretare ruoli più adulti. Il mio modello
ideale è sempre stata Diane Keaton di Annie Hall e Manhattan. Ma ero troppo
piccola e non potevo far altro che prepararmi e aspettare”.
L’esperienza delle gemelle le ha anche
aperto gli occhi sugli aspetti meno invitanti di una carriera così precoce:
poco svago, molte pressioni e zero privacy.
“Dovevano stare sempre attente ai
paparazzi e lavorare anche quando eravamo in vacanza, facendo apparizioni
pubbliche e firmando autografi”.
Meglio quindi aspettare per trovare una
maniera meno scontata di tentare la carriera d’attrice, possibilmente lontano
dalle orme delle sorelle maggiori. Il che, essendo nata e cresciuta a Los
Angeles, significava studiare teatro anziché cinema e trasferirsi a New York.
Appena terminato il liceo Olsen lascia la
California, s’iscrive a un corso della Tisch School of Performing Arts e
comincia a farsi le ossa in piccole produzioni teatrali.
Oltre a tecniche e teorie di recitazione,
studia anche psicologia all’università. E’ affascinata dalla mente umana e
dalle sue derive patologiche.
“La mia paura più grande è svegliarmi un
giorno e scoprire di avere una percezione alterata della realtà”.
Mentre divide il suo tempo fra lezioni,
audizioni e spettacoli su palcoscenici semideserti, continua a tenere d’occhio
le possibilità di fare cinema. E quando un giovane regista le propone
d’interpretare il suo primo lungometraggio, un dramma psicologico su una donna
sopravvissuta a una setta che la abusava sessualmente, non ci pensa due volte.
Con le sue paranoie e la sua visione distorta della realtà, la protagonista
incarna alcuni dei temi che Olsen sente più vicini. E pare l’occasione giusta
per smarcarsi dall’ingombrante figura delle sorelle, legate al mondo dei film
per ragazzi. Ma non è questo il vero motivo per cui accetta la parte.
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Photo by Tom Munro |
“Pur di lavorare, all’inizio dici sì a
qualsiasi cosa”, ammette mostrando una buona dose di realismo. “Sei fortunato
se alla fine si rivela essere un buon progetto”.
Come le capita appunto con La fuga di
Martha, che viene presentato al Sundance Festival nel 2011 e riscuote un
successo immediato, soprattutto grazie alla sua straordinaria interpretazione.
Poco importa che nel suo debutto cinematografico Olsen abbia dovuto prestarsi a
nudi integrali durante le scene di sesso col capo della setta.
“Se serve alla storia non ho problemi. In
questo credo di avere una mentalità più europea che americana. Qui gli attori
tendono a essere ossessionati dall’apparenza del loro corpo. Io lo vivo solo
come uno strumento di lavoro”.
Il successo di La fuga di Martha ha un
effetto immediato sulla carriera della giovane attrice. Di colpo sceneggiature
e proposte per audizioni cominciano a impilarsi sulla sua scrivania. Pur non
perdendo di vista la carriera teatrale, Olsen dedica sempre più tempo al
cinema. Interpreta diversi lungometraggi, alcuni interessanti, altri meno. E
nel giro di poco si trova a condividere il set con nomi blasonati come Jessica
Lange (In Secret), Robert De Niro e Sigourney Weaver (Red Lights). Oltre a
darle visibilità, recitare con questi attori le consente di crescere in fretta:
è la Weaver, ad esempio, che le insegna a non limitarsi a essere uno strumento
nelle mani del regista.
“L’ho vista più di una volta discutere con
il regista del personaggio che interpretava in modo deciso, ma senza polemica.
Lì ho capito che, come attrice, potevo avere un ruolo più attivo”.
L’effetto più prezioso del successo, però,
è aver finalmente scampato l’incubo d’instabilità con cui, fino a poco tempo
fa, si trovava a fare i conti quotidianamente.
“Almeno posso permettermi di finire un
lavoro senza l’angoscia di doverne programmare subito un altro”.
Ora si è data tempo fino a marzo prima di
tornare a lavorare. Si è laureata, ha appena finito di recitare in una versione
teatrale di Giulietta e Romeo, e ha bisogno di una pausa e qualche cambiamento.
E’ stanca della frenesia di Manhattan e vuole trasferirsi a Brooklyn perché, in
fondo, trova che “la city sia più bella da vedere da lontano che da vivere da
vicino”. Ha anche intenzione di comprarsi un cane e iscriversi a un corso per
imparare a fare qualcosa di manuale. Ha un buon senso pratico ed è stanca di
studiare solo a memoria. Le piacerebbe conoscere il mestiere del tappezziere,
ma sta aiutando il fidanzato a ristrutturare una casa nella campagna fuori New
York e vorrebbe sentirsi più utile.
“Forse mi converrebbe un corso di
falegnameria”.
Intanto ci sono
un paio di film in arrivo nelle sale cinematografiche che potrebbero
influenzare i suoi progetti futuri. Uno è un riadattamento di una novella di
Émile Zola intitolato In Secret, storia di una donna repressa che riscopre la
sua femminilità tradendo il marito. L’altro è un remake del film Oldboy, che
nella versione originale diretta dal coreano Park Chan-wook aveva vinto Cannes
nel 2004. L’esito di questo progetto potrebbe rivelarsi un test importante per
gli sviluppi della sua carriera. Il vecchio Oldboy è considerato un cult movie,
una sorta di Pulp Fiction in versione asiatica. Ripetere l’esperimento solo
dieci anni dopo potrebbe rivelarsi rischioso. A convincere l’attrice ad
accettare il ruolo di coprotagonista è stata la presenza di Spike Lee alla
regia e quella di Josh Brolin al suo fianco. Il progetto, però, resta una sfida
difficile. La versione coreana mescola sapientemente violenza estrema con una
delicatezza quasi poetica, mentre Olsen preferisce non sbilanciarsi su cosa
riserva quella interpretata da lei. Per saperlo, questo mese toccherà andare al
cinema col fiato sospeso.
Pubblicato su Vogue Italia
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