martedì 10 dicembre 2013

Conversazione con Elizabeth Olsen


Foto by Tom Munro
Negli Stati Uniti il cognome Olsen è sempre stato associato alle gemelle Mary-Kate e Ashley, ex enfant prodige della televisione anni Novanta che hanno fatto un marchio della loro immagine ancora prima di diventare maggiorenni. Questo fino all’arrivo della sorella minore di casa Olsen, Elizabeth, che con una serie di ottime interpretazioni sul grande schermo negli ultimi due anni ha eclissato la fama delle gemelle.
Anziché imitare le sorelle, che hanno cominciato ad apparire in telefilm per ragazzi prima ancora di perdere i denti da latte, Olsen preferisce ritardare il debutto sul palcoscenico dopo il liceo, concentrandosi sulla formazione. Studia recitazione fin dalle elementari e, dopo scuola, frequenta spesso il set seguendo le gemelle al lavoro. Ma per anni resta tranquillamente nell’ombra.
“Capitava che Mary-Kate e Ashley mi chiedessero di partecipare alle loro scene: mi mettevano davanti alle telecamere e mi riempivano i capelli di chewing-gum”, ricorda ridendo l’attrice 24enne. “Io, invece, sognavo d’interpretare ruoli più adulti. Il mio modello ideale è sempre stata Diane Keaton di Annie Hall e Manhattan. Ma ero troppo piccola e non potevo far altro che prepararmi e aspettare”.

L’esperienza delle gemelle le ha anche aperto gli occhi sugli aspetti meno invitanti di una carriera così precoce: poco svago, molte pressioni e zero privacy.
“Dovevano stare sempre attente ai paparazzi e lavorare anche quando eravamo in vacanza, facendo apparizioni pubbliche e firmando autografi”.
Meglio quindi aspettare per trovare una maniera meno scontata di tentare la carriera d’attrice, possibilmente lontano dalle orme delle sorelle maggiori. Il che, essendo nata e cresciuta a Los Angeles, significava studiare teatro anziché cinema e trasferirsi a New York.
Appena terminato il liceo Olsen lascia la California, s’iscrive a un corso della Tisch School of Performing Arts e comincia a farsi le ossa in piccole produzioni teatrali.
Oltre a tecniche e teorie di recitazione, studia anche psicologia all’università. E’ affascinata dalla mente umana e dalle sue derive patologiche.
“La mia paura più grande è svegliarmi un giorno e scoprire di avere una percezione alterata della realtà”.
Mentre divide il suo tempo fra lezioni, audizioni e spettacoli su palcoscenici semideserti, continua a tenere d’occhio le possibilità di fare cinema. E quando un giovane regista le propone d’interpretare il suo primo lungometraggio, un dramma psicologico su una donna sopravvissuta a una setta che la abusava sessualmente, non ci pensa due volte. Con le sue paranoie e la sua visione distorta della realtà, la protagonista incarna alcuni dei temi che Olsen sente più vicini. E pare l’occasione giusta per smarcarsi dall’ingombrante figura delle sorelle, legate al mondo dei film per ragazzi. Ma non è questo il vero motivo per cui accetta la parte.
Photo by Tom Munro
“Pur di lavorare, all’inizio dici sì a qualsiasi cosa”, ammette mostrando una buona dose di realismo. “Sei fortunato se alla fine si rivela essere un buon progetto”.
Come le capita appunto con La fuga di Martha, che viene presentato al Sundance Festival nel 2011 e riscuote un successo immediato, soprattutto grazie alla sua straordinaria interpretazione. Poco importa che nel suo debutto cinematografico Olsen abbia dovuto prestarsi a nudi integrali durante le scene di sesso col capo della setta.
“Se serve alla storia non ho problemi. In questo credo di avere una mentalità più europea che americana. Qui gli attori tendono a essere ossessionati dall’apparenza del loro corpo. Io lo vivo solo come uno strumento di lavoro”. 
Il successo di La fuga di Martha ha un effetto immediato sulla carriera della giovane attrice. Di colpo sceneggiature e proposte per audizioni cominciano a impilarsi sulla sua scrivania. Pur non perdendo di vista la carriera teatrale, Olsen dedica sempre più tempo al cinema. Interpreta diversi lungometraggi, alcuni interessanti, altri meno. E nel giro di poco si trova a condividere il set con nomi blasonati come Jessica Lange (In Secret), Robert De Niro e Sigourney Weaver (Red Lights). Oltre a darle visibilità, recitare con questi attori le consente di crescere in fretta: è la Weaver, ad esempio, che le insegna a non limitarsi a essere uno strumento nelle mani del regista.
“L’ho vista più di una volta discutere con il regista del personaggio che interpretava in modo deciso, ma senza polemica. Lì ho capito che, come attrice, potevo avere un ruolo più attivo”.
L’effetto più prezioso del successo, però, è aver finalmente scampato l’incubo d’instabilità con cui, fino a poco tempo fa, si trovava a fare i conti quotidianamente.
“Almeno posso permettermi di finire un lavoro senza l’angoscia di doverne programmare subito un altro”.
Ora si è data tempo fino a marzo prima di tornare a lavorare. Si è laureata, ha appena finito di recitare in una versione teatrale di Giulietta e Romeo, e ha bisogno di una pausa e qualche cambiamento. E’ stanca della frenesia di Manhattan e vuole trasferirsi a Brooklyn perché, in fondo, trova che “la city sia più bella da vedere da lontano che da vivere da vicino”. Ha anche intenzione di comprarsi un cane e iscriversi a un corso per imparare a fare qualcosa di manuale. Ha un buon senso pratico ed è stanca di studiare solo a memoria. Le piacerebbe conoscere il mestiere del tappezziere, ma sta aiutando il fidanzato a ristrutturare una casa nella campagna fuori New York e vorrebbe sentirsi più utile.
“Forse mi converrebbe un corso di falegnameria”.
Intanto ci sono un paio di film in arrivo nelle sale cinematografiche che potrebbero influenzare i suoi progetti futuri. Uno è un riadattamento di una novella di Émile Zola intitolato In Secret, storia di una donna repressa che riscopre la sua femminilità tradendo il marito. L’altro è un remake del film Oldboy, che nella versione originale diretta dal coreano Park Chan-wook aveva vinto Cannes nel 2004. L’esito di questo progetto potrebbe rivelarsi un test importante per gli sviluppi della sua carriera. Il vecchio Oldboy è considerato un cult movie, una sorta di Pulp Fiction in versione asiatica. Ripetere l’esperimento solo dieci anni dopo potrebbe rivelarsi rischioso. A convincere l’attrice ad accettare il ruolo di coprotagonista è stata la presenza di Spike Lee alla regia e quella di Josh Brolin al suo fianco. Il progetto, però, resta una sfida difficile. La versione coreana mescola sapientemente violenza estrema con una delicatezza quasi poetica, mentre Olsen preferisce non sbilanciarsi su cosa riserva quella interpretata da lei. Per saperlo, questo mese toccherà andare al cinema col fiato sospeso. 
Pubblicato su Vogue Italia

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