martedì 21 gennaio 2014

Liya Kebede, l'eclettismo fatto a modella

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Photo by Yelena Yemechuck
Yelena Yemechuck
Anche dal vivo Liya Kebede ha tratti splendidi e un’eleganza regale. Pure se indossa jeans, maglione e scarpe da tennis, come quando si presenta all’appuntamento in un caffè di Manhattan. Ma questo è scontato, essendo una delle modelle più pagate al mondo. Quel che la rende unica fra le sue colleghe è il lavoro fatto lontano dalle passerelle. Per questo quando mette subito in chiaro di non voler discutere la sua sfera privata, non ci preoccupiamo: con lei resta altro di cui parlare.
Oggi la moda è una piattaforma multiforme che può servire da rampa di lancio per le carriere più disparate, e la modella etiope ne è un esempio lampante. Dopo aver mosso i primi passi in piccole sfilate organizzate ad Addis Abeba da una donna italiana, Kebede si trasferisce a Parigi con la speranza di trovare un’agenzia e una vita migliore di quella che poteva offrirle il suo paese. Da piccola ha già vissuto all’estero, sia in Francia che in Italia, al seguito del padre, impiegato della compagnia aerea etiope. Stavolta, però, è sola, con una valigia piena di vestiti e una vaga promessa di un’agenzia contattata dall’Etiopia.
“Se appena maggiorenne mia figlia facesse altrettanto, mi verrebbe la pelle d’oca”, ammette sgranando i grandi occhi scuri.
Ai tempi, invece, sua madre appoggia la scelta, rivelandosi preveggente. Dopo pochi mesi in Francia, Kebede ha l’occasione di trasferirsi a New York dove incontra il marito Kassy, finanziere etiope di successo, con cui ha due figli, Suhul e Rae. E da lì la sua carriera prende il volo. Prima sulle passerelle, dove sfila per tutti le grandi firme della moda, divenendo una delle indossatrici più famose del nuovo millennio. E poi in altre direzioni, finendo con l’apparire persino nella lista delle 100 persone più influenti del mondo redatta ogni anno dalla rivista Time.
Pur continuando a lavorare assiduamente in passerella, la modella trentacinquenne trova il tempo per dedicarsi ad altro. Per prima, prova la carriera d’attrice. Prende lezioni private da un coach e debutta in due camei al fianco di Nicolas Cage (Lord of War) e Matt Damon (L’ombra del potere). Nel 2009 ottiene il primo ruolo da protagonista in Desert Flower in cui interpreta la storia vera di Waris Dirie, modella somala divenuta leader nella lotta contro l’infibulazione. Fino ad arrivare, quest’anno, a recitare in Italia con Giuseppe Tornatore (La miglior offerta) e in Francia per Costa-Gavras (Le capital).
Ma la vera svolta nelle attività extra-passerella arriva nel 2005, quando l’Organizzazione Mondiale della Sanità le chiede di diventare ambasciatrice della campagna per la salute materna.
Photo by Yelena Yemechuck
Ormai quasi tutte le celebrità tendono a occuparsi di cause umanitarie come strumento per lo sviluppo della propria immagine. E’ difficile continuare a mantenere alta l’attenzione dei media parlando unicamente della propria vita e dei successi personali. Ma le cose cambiano se si perora una buona causa. Durante la conversazione, Kebede non dice se questo ragionamento le è passato per la mente quando ha accettato il ruolo di testimonial per l’OMS, ma ammette che “più che averlo scelto attivamente, è il tema della salute materna ad aver scelto me”.
Appena comincia a occuparsi di questo problema, però, la sua esperienza di madre e donna africana, le fa subito abbracciare la causa con passione.
In Etiopia le morti legate al parto sono ancora frequenti. Creare condizioni sicure per la maternità è fra le priorità elencate dal cosiddetto Millenium Development Goal, la lista d’obiettivi che le Nazioni Unite vorrebbero raggiungere entro il 2050. Ma al momento la salute di mamma e bambino risulta ancora uno dei traguardi più lontani.
“Morire per dare alla luce un figlio in Etiopia è considerato normale”, sottolinea con malcelata indignazione.
Pur essendo cresciuta in Etiopia in una famiglia agiata, Kebede è sempre stata consapevole dei rischi che il parto rappresenta nei paesi come il suo. Quello che non aveva mai realizzato, come capita spesso quando si è abituati a convivere con un problema, è che questi pericoli sono prevenibili.
“Per questo credo che il compito di generare consapevolezza sia così importante”.
Purtroppo, i fattori che trasformano il parto in un momento rischioso sono spesso strutturali e riguardano la carenza di personale, d’infrastrutture ed di educazione. Per questo l’OMS cerca soluzioni che passano attraverso i governi locali, con un allungamento inevitabile dei tempi d’azione. Nella sua attività di sostegno alla causa, invece, Kebede incontra spesso persone disposte a impegnarsi e contribuire nell’immediato. Per questo ha creato una fondazione a suo nome che utilizza i soldi raccolti per finanziare piccole campagne di prevenzione e cliniche in Etiopia.
“Nel centro che supportiamo sono avvenuti oltre 2000 parti con un solo caso di complicazioni gravi per la madre”.
Photo by Yelena Yemechuck
Ma l’attività caritatevole non è l’unico modo in cui Kebede cerca di aiutare il suo paese natale. Cinque anni fa ha creato Lemlem, marchio d’indumenti fatti a mano in Etiopia e distribuiti negli Stati Uniti. La qualità del cotone locale è famosa e un tempo l’arte di lavorare al telaio era una delle industrie più fiorenti del paese. Negli ultimi anni, però, la crescente disponibilità d’indumenti confezionati a macchina ha messo a repentaglio un’intera categoria di professionisti. Kebede disegna i modelli negli Stati Uniti in stile “bohemien-chic” e poi li fa produrre da un laboratorio tessile nei pressi di Addis. Al momento impiega un centinaio di lavoratori, ma vorrebbe riuscire ad assumere più gente. Lemlem ha un occhio di riguardo per le condizioni dei tessitori impiegati, ma il modello economico su cui si basa non è quello dell’organizzazione caritatevole: per crescere il marchio deve generare profitti. Per questo le fa rabbia notare nelle vetrine di New York capi prodotti a macchina chiaramente ispirati ai modelli di Lemlem.
“Vederci copiati sulle bancarelle di Addis mi riempie d’orgoglio, ma qui significa solo concorrenza scorretta”.
Per adesso il marchio è una realtà marginale con un impatto limitato sull’economia locale, ma Kebede spera possa servire da modello per attirare altri investitori occidentali. Recentemente, ad esempio, ha saputo di un imprenditore francese che, prendendo spunto dal successo di Lemlem, ha cominciato a produrre scarpe da ginnastica vicino ad Addis.
“Molti pensano ancora all’Etiopia come il paese della grande carestia ma, in realtà, oggi ci sono opportunità di crescita interessanti”. 

Pubblicato su Vogue Italia

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