
Photo by Jennifer Schatten
“Per colpa del successo rischiavo di perdere la sanità mentale”
rivela la scrittrice. Così ha deciso di trasferirsi in campagna col
marito (sì, l’uomo di cui parla nei romanzi). Ma non ha resistito e
dalla passione per il verde è nata una storia. Nella quale si mette
ancora più a nudo

Dopo aver preso spunto dal caos della sua
vita per scrivere due libri di successo, Elizabeth Gilbert si sentiva svuotata.
Mangia, Prega Ama, diario di un
viaggio alla scoperta di sé da cui è stata tratta la pellicola omonima con
Julia Roberts, l’ha trasformata in una superstar della penna. Il sequel Giuro che non mi sposo, riflessione sul
matrimonio scaturita dalla decisione di sposarsi per la seconda volta, ha
confermato le sue doti di memorialista. Ora, però, scrivere un altro libro
attingendo nuovamente dalla sua biografia era impossibile. La vita nel paesino
della campagna del New Jersey dove si è trasferita per “mantenere un briciolo
di sanità mentale” dopo il successo planetario delle prime due autobiografie è
molto tranquilla. Troppo per diventare un soggetto anche vagamente
interessante.
“Già dubitavo che il mondo avesse bisogno di due libri sulle mie crisi esistenziali, figuriamoci di un terzo”, ammette ridendo l’autrice 44enne.
“Già dubitavo che il mondo avesse bisogno di due libri sulle mie crisi esistenziali, figuriamoci di un terzo”, ammette ridendo l’autrice 44enne.
Ma quest’esistenza stabile – fatta di
giardinaggio, una relazione felice con l’uomo incontrato in Mangia, prega, ama e un emporio di
oggetti orientali che hanno aperto insieme – si è rivelata perfetta per
scatenare la sua creatività interiore. Il risultato è Il cuore di tutte le cose, romanzo appena pubblicato su una
botanista vissuta nell’Ottocento. Un personaggio con cui Gilbert ha finito per
immedesimarsi quasi più che con quello dei suoi racconti autobiografici.
“Scrivendo della mia vita ho selezionato i
ricordi, raccontando una Lizzy solo parzialmente reale. Con questo romanzo,
invece, mi sono sentita più libera e ho finito col rivelarmi di più”.
Ad esempio, cosa condivide con Alma Whittaker, la protagonista del libro?
“La passione per le piante e il fatto di
trarre linfa vitale dal lavoro. Si tende a dare per scontato che le donne si
realizzino principalmente nei rapporti con gli altri. Per me, come per Alma,
non è così: è il lavoro a sostenermi, determinando le soddisfazioni e le
frustrazioni più importanti. Tutto il resto è una conseguenza”.
Perché ha ambientato il romanzo nell’800?
“Sentivo la mancanza di un personaggio
femminile dell’epoca che sfuggisse allo stereotipo tradizionale: felicemente
sposata o rovinata dalle scelte sentimentali. E volevo sfatare un altro mito della
letteratura femminile: è raro che una donna si faccia travolgere dalla
delusione. Più spesso succede che riesca a trasformare il dolore in forza di
volontà e saggezza. Ma di questo si parla poco”.
“Sono cresciuta in una fattoria e, pur non
avendo mai amato la natura, qualcosa devo aver assorbito. Prima di scrivere Mangia, prega, ama vivevo a New York. Ma
il successo del libro mi ha disorientato e ho sentito il bisogno di tornare a
un ambiente familiare per restare con i piedi per terra e mantenere un briciolo
di sanità mentale. Mi sono trasferita in campagna, ho cominciato a coltivare piante
e ho scoperto una nuova passione”.
Perché disorientata?
“Perché mi sono sentita derubata del mio
tempo e delle mie energie. Faccio fatica a dire no e all’inizio è stata dura.
Ero grata per l’attenzione che mi veniva dedicata ma dopo poco ho sentito il
bisogno di prendere le distanze. Altrimenti avrei rischiato di smettere di
scrivere”.
Le autobiografie parlano anche di depressione, sesso, ansia, vergogna. Si è
mai sentita vulnerabile davanti al pubblico dopo aver rivelato così tanto di
sé?
“Stranamente, no. A parte qualche
eccezione, i lettori sono sempre stati rispettosi e educati, ma il rischio
esiste. Ai tempi ero più fragile e aperta e quelli mi parevano temi inevitabili
da affrontare. Oggi non sarei in grado di fare altrettanto”.
Ha qualche rituale che la aiuta a scrivere?
“Tendo a isolarmi e svegliarmi verso le
4.30-5 di mattina. Sono molto devota alla pratica della scrittura e, come tutti
i devoti, mi alzo presto. La mia mente è produttiva solo fino a mezzogiorno”.
Usa spesso il termine devozione e sul braccio ha tatuata la parola
compassione. Si ritiene un po’ New Age?
“La definizione non mi offende. Riconosco
di avere un debole per le questioni spirituali: ho sempre amato chi prova a
trasformarsi cercando dio o un significato più profondo nel mondo”.
In passato i suoi libri hanno generato enorme successo di pubblico ma anche
giudizi severi da parte di alcuni critici letterari. Che effetto le ha fatto?
“Non scrivo per i critici, ma perché sento
il bisogno di farlo. Certo, non è piacevole sentirsi giudicata da gente del
mestiere. Per questo cerco di non Googolare il mio nome su internet. E’ una
tentazione troppo pericolosa. Non sai mai quel che può apparire”.
Dopo aver impiegato sei anni per rimettere a posto una meravigliosa villa
in New Jersey ha deciso di venderla. Perché?
“E’ troppo grande da vivere in due. I figli
di mio marito vivono in Australia e vengono raramente. E’ stata la mia casa dei
sogni ma ora è tempo di cambiare. Non sono una che mette radici. Al contrario,
m’innervosisco quando comincio ad accumulare cose”.
Com’è nata l’idea di aprire un negozio di antichità orientali?
“Mio marito si definisce un venditore di
cammelli e commercia da tutta la vita in pietre preziose. Abbiamo pensato che
avere un negozio insieme poteva essere una buona scusa per continuare a
viaggiare e comprare gli oggetti meravigliosi che incontriamo”.
Pubblicato su Io Donna
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