La politologa Anne-Marie Slaughter propone un nuovo patto con gli uomini: "Se vogliamo che si assumano più responsabilità in famiglia, diamo loro più spazio, senza imporre i nostri metodi. Vedrete che se la cavano benissimo".
E dire che pensa che il femminismo sia sorpassato.
Anne-Marie Slaughter ha dedicato la vita a studiare politica internazionale,
guadagnando una cattedra a Princeton e la fiducia di gente come Hillary
Clinton, che quando era a capo della diplomazia di Obama non muoveva un passo
senza il suo consiglio. Ma finché si è occupata di geopolitica era una
professoressa semisconosciuta. Poi ha scritto un articolo sulle difficoltà di
dividersi fra il lavoro al Dipartimento di Stato e i figli adolescenti, ed è
diventata una sorta di eroe nazionale in America. Quel pezzo, intitolato “Why women still can’t have it all”, è uno dei più letti di tutti i tempi e l’ha portata
ad essere spesso contrapposta a un’altra icona del femminismo contemporaneo: Sheryl
Sandberg, big boss di Facebook e autrice di Lean In, libro che invita le donne
a imporsi per contare di più sul lavoro.
“La mia carriera di esperta di politica
internazionale è stata cancellata in un secondo”, scherza la professoressa
55enne, che ora dirige l’influente think-tank New America Foundation. “Tutti mi
chiedono sempre e solo di quell’articolo”.
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Photo by Phillip Toledano |
Il suo articolo è servito certamente a
rinvigorire il dibattito femminista. Ma a due anni dalla pubblicazione, proprio
quando la gender agenda sembra essersi imposta un po’ dappertutto, almeno a
parole, Slaughter torna sui suoi passi suggerendo che la strada verso la vera
uguaglianza passa attraverso il superamento della questione di genere.
Perché proprio adesso si dovrebbe smettere di parlare di parità donna-uomo?
“Perché il movimento femminista è in stallo.
Dagli anni '90 non ci sono più stati miglioramenti significativi. Per creare
una società più equa occorre quindi cambiare il punto di vista”.
Cioè?
“Il problema principale del mio articolo e
del libro di Sheryl [Sandberg] è che entrambi si concentrano sulle donne,
mentre è venuta l'ora di reimpostare il dibattito in termini di chi lavora per
portare a casa il pane rispetto a chi lavora per prendersi cura degli altri,
indipendentemente dal genere. La società è strutturata in modo da forzare gli
uomini ad assumere il ruolo di breadwinners. E le donne sono corresponsabili di
questo stereotipo”.
Sta dicendo che gli uomini hanno meno possibilità di scelta delle donne?
“In un certo senso sì. Se al posto di due
maschi avessi avuto figlie femmine le avrei educate a pensare di poter fare
qualsiasi lavoro, ma avrei anche messo in chiaro che investire la propria vita
nella cura degli altri è una scelta altrettanto rispettabile. Non posso dire di
aver fatto lo stesso con i miei figli. Non li ho educati a pensare che non c’è
nulla di male a fare il padre a tempo pieno. Il modo in cui misuriamo l’uomo è
ancora basato su quanto è in grado di guadagnare e di quanto potere dispone.
Occorre cambiare il modo in cui s’intende la mascolinità”.
E per farlo di cosa c’è bisogno?
“Innanzitutto un maggiore rispetto per il
lavoro di chi si occupa degli altri e poi un cambio di mentalità. Oggi gli
uomini si trovano in una posizione simile a quella delle donne negli anni ’60,
quando nessuno credeva potessero lavorare come, se non meglio dei loro mariti”.
Davvero crede che gli uomini possano essere altrettanto bravi nel prendersi
cura dei figli?
“Certo. Ci sono molte differenze nel modo in
cui mio marito ed io gestiamo la casa e educhiamo i figli. Ma non c’è
differenza in quello che abbiamo provato quando li abbiamo presi in braccio per
la prima volta”.
Come si fa a incoraggiare gli uomini ad assumersi più responsabilità in famiglia?
“Innanzitutto dandogli più spazio per farlo a
modo loro, senza imporre i nostri metodi perché pensiamo che funzionino meglio.
Quando sono andata a lavorare a Washington mio marito ha accettato di occuparsi
della famiglia a condizione che io non cercassi di gestire la situazione a
distanza e lo lasciassi libero di fare come credeva”.
Lei si considera una femminista?
“No, prima di tutto mi considero
un’imprenditrice, perché nella mia carriera ho scelto di prendere dei rischi.
Come quando ho lasciato il Dipartimento di Stato alla vigilia di una promozione
per tornare dalla mia famiglia. O quando ho rinunciato alla cattedra a
Princeton per diventare presidente della New America Foundation, una decisione
di cui i miei genitori ancora non si capacitano”.
Pubblicato su Myself
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