Qui resiste il mito del buon Paese selvaggio

La settima tappa attraversa il paradiso piemontese. In questo tratto, con 235 chilometri di parco fluviale e 36 mila ettari di area protetta, il Grande fiume diventa il migliore esempio di bellezza non conformista. La risposta al desiderio di natura imprevedibile

La veranda della baràca sembra un ring, e Angelo sta all’angolo, stringe i denti come se aspettasse la prossima ripresa, seduto sulla panca, le braccia allargate sulle assi come un cristo in croce. “A remi faccio circa seicento chilometri l’anno. A volte mi chiedo quanto durerà, ho 74 anni e posso remare ancora un giorno intero…” Angelo Bosio è stato l’unico a risalire il Po controcorrente, da solo in piedi sul barcè, una specie di discendente piemontese della piroga. Nel 2008 è venuto su a remi, o aggrappandosi al ramp, una pertica ferrata che serve per arpionare il fondale e fare leva, mettere k.o. la corrente.
“Dura, durissima, in certi momenti. Sono sceso fino al mare molte volte, otto giorni in favore di corrente. Ma a salire ci ho messo 21 giorni fin qui a Valenza, poi altri sei fino a Staffarda, dove il Po diventa un torrentello tra i sassi. In certi momenti dovevo rasentare le rive, spingermi lungo i sassi degli argini, rischi tremendi. Una fatica allucinante, remavo sei, otto ore al giorno. In certi punti balordi dovevo legare la barca, tirarla su, superare lo sbarramento e rimetterla in acqua… comunque niente, è stato bello anche questo”.

Angelo Bosio con il mano il suo ramp

Lo chiamano l’Imperatore del Po, in effetti lo domina come un albatros il vento. A terra cammina quasi goffo, ciondolando le grosse braccia, leggermente incurvato, gli occhi guardinghi fissi al suolo, attento a dove mettere i piedi mentre scende il sentiero sotto la capanna verso i suoi barcè di nove metri, piatti e agili, costruiti da sé, da bravo maestro d’ascia (“a occhio, perché non esistono regole per le imbarcazioni di fiume”). Ma quando è nel suo elemento è dritto e plastico, guarda lontano a leggere le increspature della corrente, scivola via nelle rapide, gratta il fondale, gira la prua a monte, quindi curva morbido come un ragazzino allo skate park e fila via fendendo gli scalmi con l’espressione veemente e compiaciuta di Alessandro in battaglia. Ha mani enormi come badili, eppure per quasi 50 anni ha fatto l’incastonatore a Valenza, la città dell’oro e dei gioielli: “Il vero boom fu dopo la Seconda Guerra, quando le aziende arrivarono a trecento. La fortuna di Valenza è stata il Po, l’oro in principio, nell’Ottocento, arrivava dalle Alpi, dalla Dora Baltea e dal Sesia, pietruzze, ma anche vere pepite… fino a vent’anni fa vedevi ancora qualche sgattalòr, cercatori d’oro. Ricordo che ai bei tempi a Valenza si lavorava così tanto oro che i lavasecco avevano degli speciali filtri per succhiarlo dagli abiti, i barbieri la sera setacciavano i capelli tagliati e tiravano fuori qualche grammo…”.

Angelo Bosio nella sua baràca

Acqua passata, Angelo non ha fatto fortuna, naviga nell’oro solo quando è a Po, sul barcè o con la ghenga di baràca, che è insieme tana e casino di pesca. “Ho sempre avuto quest’attrazione, anche se sono un pessimo nuotatore e non amo bagnarmi, mi sento sicuro solo col remo, mica a motore… Bei momenti, ma anche cose brutte, cose veramente tremende…” Angelo 22 anni fa ha perso un figlio nel Po, era con lui e altri amici a pochi metri dalla riva, aveva 15 anni, non è riuscito a strapparlo alla corrente. L’imperatore sembra ora un pugile sconfitto, ha voglia di aprire il suo cuore, guarda il fiume dalla veranda come ha fatto miliardi di volte: “È un peso che mi porto dietro ogni giorno, forse la mia è una sfida, mah ci vorrebbe uno psicanalista… In un certo senso io il Po lo amo e lo odio allo stesso tempo, a volte quando lo attraverso è così… con rabbia. Poi basta un tramonto e torno a sentire il mistero e l’attrazione”. In paese la gente si commuove ancora a parlarne. La signora Glory abita nella più chic tra le centinaia di pittoresche dacie in legno ed eternit sul Po, in questa sorta di Volga che va dal Monferrato alla Lomellina; coltiva rose antiche, Soraya, Montezuma, Suspence, dal giardino si vede il ponte di Valenza, il più bello di tutto il Po, con i piloni in cotto arrossati dal sole piantati nelle rapide spumeggianti. “Angelo, povera creatura” dice la Glory “viene a Po a cercar suo figlio”.

Ma Angelo assicura che alla fine è la “droga di tanta bellezza” ad alimentare il mistero. “Il Po l’hanno chiuso, imbrigliato, emarginato, ma separandosi dal fiume si sono imprigionati loro, noi che lo viviamo siamo liberi e ci sentiamo una comunità diversa, privilegiata”. 

Vuol dire insomma che il Grande fiume, e soprattutto questo tratto piemontese con 235 chilometri di parco fluviale, 36 mila ettari di area protetta su quattro province, è l’ultimo vero caveau di selvaggio in Italia. E spiega anche il senso del nostro viaggio controcorrente, in sintonia con il nuovo sguardo con cui sempre più oggi cogliamo la bellezza, non più utilitaristico e funzionale alla logica di moderno-uguale-bello, ma uno sguardo disinteressato; il Po, dimenticato e abbandonato, diventa improvvisamente il migliore esempio di bellezza non conformista. La risposta al desiderio di natura imprevedibile, alla nostalgia del selvaggio che va montando come una rabbia. E viene in mente un’annotazione visionaria di Cesare Pavese del 1946: “Il selvaggio non è nulla senza una concezione magica del mondo. A che monta questo senso struggente del selvaggio, questa bellezza sobria e rude, questa commozione, se essa influisce su di noi appunto soltanto come bellezza, come impressione? Il selvaggio per essere deve influire vitalmente anche sull’analfabeta, dev’essere potenza non bellezza”.

Spiagge immacolate, gorghi d’acqua verde, colori africani. Sulle rive i pioppi si gonfiano al vento. Sopra la linea verde dei salici e degli ontani, oltre le risaie del Biellese, emerge come un totem la parete Est del Monte Rosa. In cielo sorvola, sospeso come un drone, il falco di palude. La garzaia di Valenza è stata la madre delle riserve fluviali piemontesi. Nelle isole sabbiose, nelle lanche, i ghiaieti e nei boschi ripariali nidificano tutti gli aironi europei, da quello rosso, il più elusivo, a quello cinerino, il più comune, alla garzetta, alla nitticora, al tarabuso. Da qui e per un lungo tratto fino alle ultime propaggini dei colli del Monferrato - siamo in pieno Po risorgimentale, Garibaldi contrastava l’Austriaco nel fango con i suoi Cacciatori delle Alpi - il fiume è com’era alle origini; Verrua Savoia, Crescentino, Fontanetto Po, Pontestura, Casale Monferrato, Frassineto Po sono alcuni dei comuni compresi nel Parco fluviale del Po e dell’Orba, presidiato dalla divina quercia farnia, simbolo della bellezza creatrice dell’universo, e da Dario Zocco, il biologo direttore del Parco, uno dei più studiati al mondo per il recupero delle aree fluviali, soprattutto per la gestione delle cosiddette “invasioni botaniche”, le piante alloctone come il pioppo americano, lo stoppione, la margherita bianca e la barba di becco: “Non solo gestiamo un patrimonio di biodiversità, ma qui s’intrecciano mille anni di storia e natura, s’incontrano le grange delle abbazie cistercensi, cascine a corte chiusa, prime aziende agricole dell’Occidente, perché i frati disboscavano e usavano le marcite per le risaie”. Siamo a Frassineto, che già nel nome ricorda la presenza di grandi foreste. Il vicino bosco delle Sorti della Partecipanza di Trino, santuario di querce, carpine bianco, acero campestre, ontano nero, robinia, è l’ultimo relitto della sterminata foresta padana.

Dal 1275 ogni anno una porzione di bosco è destinata al taglio, suddivisa in “sorti” ripartite a loro volta in “quartaroli”, a ogni sorte viene attribuito un numero, estratto dai partecipanti, che possono quindi tagliare uno o due quartaroli per sorte, insomma uno di quegli intrighi amministrativi con cui nel Medioevo amavano complicarsi la vita. Zocco racconta come, grazie ad accordi con i cavatori di sabbia, si stanno ricreando le zone umide laterali al fiume, perse con la cementificazione delle sponde degli anni 70-80 e con il prelievo di acqua per le risaie. Perché dai cistercensi in poi, per creare questa Mesopotamia d’Italia non si è mai finito di vampirizzare il Grande fiume e i suoi affluenti: uno sbarramento devia la metà delle acque della Dora e, all’altezza di Chivasso, il Po viene depistato a Nordest nel Vercellese dal Canale Cavour, una delle grandi opere d’ingegneria idraulica dell’Ottocento, che rivoluzionò il paesaggio. Verso la fine del nostro viaggio torniamo così a confrontarci con il complicato rapporto tra l’uomo e l’acqua, dalle opere faraoniche della Serenissima sul Delta a quelle del neonato Regno d’Italia in Piemonte: a Greggio, nel Vercellese, il canale è intubato, passa addirittura sotto il Sesia ed entra nel novarese dove prende le acque del Ticino… un lungo corso d’acqua artificiale che passa sopra e sotto altri fiumi, un affluente al contrario, che toglie anziché dare. Ciò che arriva in Adriatico è solo quel che resta.

La chiamano “operazione Barcellona”. Come accadde nella capitale catalana con le Olimpiadi, quando una coraggiosa e vincente rivoluzione urbanistica le fece riabbracciare il mare, così nel suo piccolo anche Casale Monferrato sta riscoprendo la millenaria tradizione fluviale: dopo una delle più mortali riconversioni industriali del dopoguerra che l’aveva portata a girare le spalle al Po e a usarlo come cloaca, ora Casale lo vede di nuovo parte di sé e risorsa: primo segnale forte la recente costruzione di un imbarcadero e di un’area sosta attrezzata. D’altronde il Po ci passa proprio in mezzo a Casale, lambisce la spettacolare roccaforte, ma se i turisti l’hanno ignorata per decenni nonostante lo straordinario fascino, è perché la città aveva rinnegato il padre e perso l’identità. Le case che affacciano sul fiume hanno finestre cieche, la fetta di città sulla riva sinistra, concepita quasi come un ghetto e chiamata “oltre Po” o Stalingrado del Monferrato, era quartiere operaio e ora, con la morte dell’industria, soprattutto con la strage dell’Eternit, è una ghost town, paesaggio di rovine. “La soluzione è nell’alleanza tra Po e bici” dice Daria Carmi, giovanissima assessore alla cultura. La incontriamo in sinagoga, una delle più antiche d’Italia, fondata nel 1492 e decorata in pregiato rococò piemontese. Negli anni delle leggi razziali, furono 150 i deportati ebrei di Casale, tantoché oggi quelli rimasti sono solo cinque, praticamente la famiglia di Daria. Che è la più agguerrita sostenitrice di VENTO, la ciclabile sulla dorsale Venezia-Torino che segue gli argini del fiume (progetto del Politecnico di Milano, sostenuto soprattutto con i fondi della Fondazione Cariplo) e che ha ispirato questo nostro viaggio d’esplorazione nel mondo-Po: “Casale diventerà l’incrocio tra due arterie ciclabili, la Svizzera-Mare e VENTO. Abbiamo fatto uno studio che prevede un flusso annuale di 350 mila cicloturisti”. Dall’Eternit ai pedali. “Il centrale mercato ortofrutticolo ormai in disuso diventerà ostello e ciclo-officina, lungo il Po piemontese si sta organizzando una rete di finanziamenti per mettere in sicurezza la pista. Trino, ad esempio, ha deciso d’utilizzare parte dei fondi di compensazione per l’ex centrale nucleare Enrico Fermi allo sviluppo di VENTO”. 

Dal nucleare al turismo lento. Piccola soddisfazione per il Po, una palingenesi che è la riprova del dispregio con cui l’abbiamo considerato, unica regione autonoma senza privilegi, luogo-cavia su cui poter infierire impunemente. Anche location per gli unici esperimenti nucleari del paese: dalla centrale di Caorso a ridosso del Po Piacentino, a Saluggia, dietro la Dora - uno dei punti più a rischio inondazione della pianura padana - dove hanno stoccato le scorie nucleari italiane, alle spettrali cupole atomiche di Trino qui sul Po vercellese, la città dove Cavour fu consigliere comunale e grande imprenditore agricolo nella frazione di Leri. Incombe sempre il rischio d’una catastrofe in caso di piena. Ma abbiamo imparato lungo il fiume che, per una malvagia attrazione degli opposti, accanto alla bellezza e all’innocenza spesso s’annida l’osceno.

Finisce il riso e comincia l’agnolotto, siamo verso l’alfa del viaggio, dove i romani gettarono le basi della Fiat. Tra la riva destra del Po e la balconata appenninica che plana con l’ultimo Monferrato verso il fiume, sotto San Sebastiano Po e alla confluenza con la Dora Baltea, ecco gli scavi della florida città portuale romana di Industria, che ebbe il suo massimo splendore tra il I e II secolo d.C. Qui arrivava il ferro dalla Valle d’Aosta e qui nacque la prima fabbrica metalmeccanica d’Italia. Rane assordanti, lucciole, e in cielo il riverbero delle luci di Torino.

7/8 The River Journal Project

testo di Marzio G. Mian e Nicola Scevola

Foto di Nanni Fontana e Massimo Di Nonno

Pubblicato su Sette