giovedì 29 ottobre 2015

Terra di riva e di golena, di boschi e di sabbioni


Il sesto episodio del viaggio sul Po ci porta ad attraversare il cuore del pavese. "Dopo l’amplesso con il Ticino, il Po rincoglionisce letteralmente", scriveva Gianni Brera, cantore raffinato di questa parte del Grande fiume dove la provincia, per qualche strana alchimia, è diventata avanguardia

Scendendo il Po a motore spento, spinti dalla corrente, si ha l’impressione che, all’approssimarsi della foce del Lambro sull’argine sinistro, all’altezza di Orio Litta nel Lodigiano, il Grande fiume provi ribrezzo, anzi terrore. Ha da poco ricevuto una boccata d’ossigeno dal Ticino che è tra i fiumi più puliti d’Europa; e a monte, dal ponte della Becca, si può proprio osservare come per un lungo tratto l’acqua giallognola del Grande fiume e quella cerulea del Ticino rimangono per conto loro, faticano a mescolarsi, poi si vede che il Ticino annacqua il suo sussiego svizzero, si rassegna e diventa Po. Il quale fa appena in tempo a godersi questa botta di vita - “dopo l’amplesso con il Ticino, il Po rincoglionisce letteralmente” scriveva Brera - che incontra il fiume più inquinato d’Europa. Scarta sulla destra, come se sentisse odore di morte, come sapesse che lo stanno per colpire 40 metri cubi di veleno al secondo.
Nonostante gli sforzi successivi al disastro ambientale del febbraio 2010 quando nel Lambro vennero sversati 2,5 miliardi di litri di petrolio, l’equivalente di 170 autocisterne, l’attivazione di nuovi depuratori e investimenti lombardi per quasi tre miliardi di euro, quest’affluente che attraversa la città di Expo dedicata al nutrimento del Pianeta, continua a iniettare nel Po e quindi nel Mediterraneo i due terzi degli scarichi civili e industriali della Lombardia. Assistiamo al lento e tremendo impatto con la brodaglia grigiastra e bluastra; un intruglio che impiega una ventina di chilometri prima d’essere assorbito. Dicono che dall’alto si vede un pennacchio scuro dipanarsi sulla riva sinistra, giù fino a Piacenza.
E che, risalendo, si può osservare come ogni affluente ha il suo colore: bianco lo Scrivia, rossa l’acqua del Tanaro, nera quella della Bormida, mentre il Sesia cambia tonalità anche più volte al giorno. Il Po avvelenato dai suoi figli. “Spero di morire prima di veder morto il Po” si legge in uno degli ultimi scritti di Riccardo Bacchelli. È la storia dello sviluppo padano che per decenni ha usato il Po come un canale di scarico, mentre il Tamigi è balneabile da vent’anni e il Ruhr è diventato uno dei più pescosi della Germania. Le cose però sul Po stanno cambiando in fretta, lo ammettono pure gli ambientalisti più tosti: a causa di maggiori controlli, dei nuovi depuratori (funzionanti!) nelle grandi città, soprattutto per le tante fabbriche chiuse per la crisi. E il Po è grato, fa quasi tenerezza, dimostra una straordinaria voglia di vivere, gli offri una piccola possibilità e t’inonda di bellezza e ottimismo. “Il Po rende buoni” diceva Cesare Zavattini.


Siamo nei meandri, dove il fiume alluvionale con i suoi anarchici spostamenti e le sue curve a U per secoli ha fatto impazzire i cartografi - pensate che verso l’Alessandrino, al confine tra Piemonte e Lombardia, confine che il letto del fiume rende mutevole secondo i suoi umori, c’è addirittura un paese che si chiama Alluvioni Cambiò. Un anaconda che muta continuamente le sue spire, che ha tuttavia offerto riparo, gloria e avventura a generali, dame, santi, partigiani e cronisti. Un meandro di storie, vivaio di racconti al limite dell’incredibile: dove se non qui Annibale poteva stupire la Storia universale facendo guadare d’inverno i suoi elefanti-tank? Un fiume di fatti, parole e inchiostro, il Pulitzer dei grandi corsi d’acqua mondiali; questo tratto di Po che va, per chi lo percorre controcorrente come noi, da Piacenza alle risaie della Lomellina e Valenza potrebbe valere, soprattutto in bici, un viaggio a sé - una parte per cogliere il fascino dell’intero corso d’acqua, una specie di sineddoche padana. A Piacenza abbiamo lasciato il fiume che si distende, ormai adulto e vaccinato, che cerca conferme e non avventure. Consapevole del proprio destino. “Il Po comincia a Piacenza” diceva Giovannino Guareschi. Purtroppo la città a forza di restyling d’identità, combattuta tra l’Emilia cui appartiene e la Lombardia cui aspirerebbe, s’è dimenticata di Lui, gli ha girato le spalle e quindi ha perso respiro. Già ai tempi d’Augusto, con il Po favorevole s’andava da Piacenza a Ravenna in 48 ore portando merci, quasi meglio dei tir sull’Autosole. Dal Po di Piacenza partirono i Crociati, nel gennaio 1491 vi galleggiavano trentacinque navi e due bucintoro con a bordo 400 persone, il seguito di Beatrice d’Este che da Ferrara andava a Milano a sposare Ludovico il Moro. C’è una bolla di Papa Paolo III che nel settembre 1535 assegnava gli introiti daziari di Porto Piacentino (il più redditizio di tutti) a Michelangelo Buonarroti, in pagamento dei lavori eseguiti in Vaticano.   

Si sta bene sotto il pergolato di Danilo. Un silenzio immenso, il gelso filtra la luce estiva come la vetrata di un’abside. Beviamo un vinello sincero, la forza del barbera sembra mescolarsi alla delicatezza del lambrusco. Potrebbe essere un grazioso rudere ristrutturato a ridosso della golena sull’argine destro piacentino, ma siamo in uno degli snodi cruciali della cristianità: questo Transitus Padi incrocia il percorso di San Colombano - l’irlandese che agli inizi del settimo secolo seminava con i suoi monasteri un’idea d’Europa unita e spirituale - la via Francigena-Romea per Roma e Gerusalemme, ed è anche porta orientale del cammino di Santiago. Danilo Parisi traghetta i pellegrini della Francigena da Corte Sant’Andrea, sponda sinistra a qui, Soprarivo di Calendasco: “Questo è l’approdo di Sigerico, l’arcivescovo di Canterbury, quando nel 990 attraversò il Po sulla via di Roma per ricevere l’investitura del Papa” dice Danilo, ex rugbista, ex miscredente e ora fraterno amico e spesso confessore degli oltre quattromila pellegrini che ha ospitato e traghettato dal 1998, quando ha riaperto questo hospitium peregrinorum. Porto romano, poi longobardo, ora è il guado di Danilo: “Semplice, qui la corrente del Po dimezza la velocità” dice. “Arrivano soprattutto dalla Francia e dall’Olanda” racconta. “Il primo pellegrino fu un olandese, un frate agostiniano. Mia moglie gli lavò i panni, rimase due giorni. Poi è tornato 10 anni dopo, sempre a piedi per vedere una partita Italia Olanda”. Danilo ha un librone così, li annota tutti. “Il numero nove, uno scozzese, è tornato a trovarmi l’altro ieri, uno che filtra ettolitri di vino”. Ora la media è di cinquecento anime l’anno. Ma con papa Francesco la clientela aumenta, con il Giubileo Danilo pensa che dovrà fare scorta di coppa e farina da polenta. L’offerta è libera, Danilo è generoso, traghetta, spignatta: “Voglio morire nel Po o facendo la pastasciutta”. “Quando vado dal vescovo, che è uno di Vercelli, mi regala il riso tutte le volte. C’è stata la messa per i 1400 anni del pellegrinaggio di San Colombano e il vescovo è sceso dall’altare quando c’era da dare il segno di pace e mi è venuto ad abbracciare, a me che mi frega di vincere al totocalcio, mi interessa ‘sta roba qua”. “Eminenza, gli faccio un giorno, ma questi pellegrini che vengono sono spesso dei caproni. E lui mi fa: guarda che il pellegrino sa che è un caprone e si è messo in cammino per cambiare. Vedrai che quando torna da te sarà un’altra persona. Magari molto peggio di un caprone, ma un altro”. “Uno parte, cambia. Bello, no?”

Proprio come la tomba di James Dean a Fairmount, Indiana, paesino di 500 anime. Anche quella di Gianni Brera a Pianariva, sotto l’argine pavese del Po, è la più umile di tutte. Una lastra di marmo, un cippo, una foto malinconica, nome e cognome. Intorno, invece, cappelle in stile neoclassico con i nomi dei capostirpe impressi in bronzo sul timpano, un pantheon di sconosciuti. All’attore maledetto le ex ragazze degli anni Cinquanta lasciano mozziconi di Camel umettati di rossetto sotto i fiori di plastica; a Giuán Brera fu Carlo va rinnovato il mezzo toscano su un portacicche d’alluminio. Il Figlio del Po è dunque nato qui, tra il Grande fiume e l’Olona, una fetta di terra piatta segnata da canali, lanche, marcite, cascinali pencolanti d’impronta longobarda, i segni delle poderose bonifiche dei frati. “Sono cresciuto brado fra i papaveri e le oche naviganti l’Olona. Ho imparato a nuotare con loro… Io sono padano di riva e di golena, di boschi e di sabbioni. E mi sono scoperto figlio legittimo del Po…” Ma Brera racconta ben altro, ciò che fa del Po, soprattutto di questo tratto di Po pavese, un fiume da Nobel alla carriera. Vi sono pochi luoghi in Italia come questo dove la provincia, addirittura marginale, per qualche strana magia è diventata avanguardia; qui s’esprime il meglio di quella vena innovativa e anarchica che attraversa le terre del Po. Una “conca d’oro” della cultura contadina e classica che ha prodotto individui magari selvatici ma capaci di volare nel grande mondo, di rompere gli schemi tra giornalismo e letteratura, impastando linguaggi e stili originali; oppure ha generato buongustai di paese, come Gualtiero Marchesi, che con Brera condivideva gigantesche frittate di rane - “la manna dei poveri” - dalla Carolina a San Zenone, e che è arrivato a conquistare i palati dei potenti del globo, a rifondare la cucina italiana. Un paio di volte l’anno Marchesi entra in golena e va a trovare la Silvana nel suo bar-imbarcadero sul Po di San Zenone, il più poetico dell’intero fiume: “Mi racconta le ricette che sta studiando, l’ultima volta erano i rognoncini di coniglio…” rivela arrossendo, come se confessasse di nascondere un diamante nel seno. 

Silvana Dolci è “la mamma del Po”. Vive in una roulotte vicino al bar galleggiante, sverna
nel golfo di Arbatax. Ha gli occhi sereni, abituati a guardare oltre i volti, oltre l’altro argine,
le colline increspate dell’Oltrepò che annunciano temporale. Qui l’isterismo della modernità passa come una puntura di zanzara. C’è l’attracco, il biliardino e poi canoe “per far divertire i ragazzini e avvicinarli al fiume”. Dopo l’oratorio piombano qui: “Quelli della mia età il fiume lo schifano, ma siccome ghe più minga de danè i figli li mandano da me, bevono acqua e lampone, la canoa è gratis. Si trovano bene qui i ragazzini. Li conosco tutti, molti sono figli di quelli con cui venivo qui 30 anni fa. Ghe da fa la mama, o la sorella maggiore, quella che li tiene un attimo…. E poi non lo so, appunto, devi dare delle cose gratis ai ragazzini di 16 anni, puoi mica fargli pagare tutto. Non abiterei in nessun altro posto, senti proprio il cambio delle stagioni, del tempo, gli uccellini al mattino, quelli notturni. La nutria si chiama Peder, il corvo Giacomo, ogni bestia ha il suo nome, il coniglietto Sergio. Non diamo i nomi alle libellule perché sono troppe”. Si fa l’aperitivo, taglia un tocco di formaggio, il salame: “Quando viene una piena stai sveglio per giorni, è bellissimo, senti il Po che urla proprio, ma le energie che ti dà l’acqua quando sale sono indescrivibili”. Beviamo il mitico Barbacarlo, altro meandro di racconti che ci porta dall’atra parte, a Broni, passando da Stradella, già famosa per le fisarmoniche e ora per la bonifica dall’amianto che ha causato una caterva di morti. 

Lino Maga
Il vecchio Lino Maga, con il suo Barbacarlo, prodotto dal 1866 con un uvaggio di vitigni cresciuti su un unico preciso piccolo podere, ha fatto la storia del vino italiano: “Ma la qualità adesso la fa la carta non più la terra”, dice a fil di voce, una sigaretta via l’altra. Ha combattuto contro le sofisticherie, contro il consorzio dell’Oltrepò e gli usurpatori del marchio, si è isolato, nonostante l’appoggio di Veronelli e dell’amico fraterno Giuàn, nonostante la clientela che andava dai presidenti della Repubblica ai governatori della Banca d’Italia, al cardinal Casaroli. Spesso venivano personalmente in bottega, cacciò l’allora dirigente Pci Giorgio Napolitano “perché voleva contrattare il prezzo delle bottiglie”. “Gli enologi fanno il vino sempre uguale, che è contro natura. Il mio segue l’andamento climatico. Giuàn mi diceva mola no il mass, tieni duro. Mi chiamava nel cuore della notte, quando era con la banda in qualche posto a mangiare tordi o la testina di vitello o la cassoeula; partivo nella nebbia per Milano o Bergamo con le bottiglie. Una volta stappo un magnum, Giuva madonna sa de tapp, dico. Ti tel diset… non ne voleva sapere, mi difendeva a spada tratta.” Ricordi. “Storie passate, come l’acqua del Po”, sospira Lino. “Si parlava della faccenda delle acque come fossero annate di vini”. Lui le sue le elenca come un salmo talmudico: “’68 medio, ‘69 eccezionale, ‘70 medio, ‘71 eccezionale, ‘72 scarso… ‘78 è venuta giù una grandinata il 6 agosto quando hanno fatto Papa Luciani, ‘79 eccezionale, l’80 è stata una vendemmia tardiva, abbiamo colto l’uva il 4 novembre e mio padre diceva diamoci da fare che il tempo minaccia, e aveva ragione si è messo a nevicare… era il 4 di novembre, ‘94 ha grandinato, abbiamo iniziato la vendemmia il 27 settembre alle 8, alle 9 e un quarto ha grandinato…”


6/8 The River Journal Project
testo di Marzio G. Mian e Nicola Scevola
Foto di Nanni Fontana e Massimo Di Nonno
 
Pubblicato su Sette

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