Il Po vuole le sue vittime, dice Massimo Bernardi, ex operaio. “Se ci sono meno annegati è solo perché c’è ormai quasi più nessuno che viene a Po a nuotare. Non è questione che è traditore, Lui c’ha bisogno di tirar giù ogni tanto qualcuno, sono le regole”. Siamo nel regno del “Re del Po” a Boretto, la sua reggia è fatta con i legni trascinati dal fiume che s’accumulano sotto il ponte di Viadana: un’opera incastonata tra i pioppi grigi e i salici selvatici; a seconda della prospettiva e della luce diventa una nave baleniera arenata, nido di argentavis magnificens, cioè una sorta di cormorano preistorico, oppure riparo per individui selvatici e per ragazzini che riempiono i vuoti ed eterni pomeriggi d’estate tuffandosi nell’acqua verdina; si potrebbe chiamarla installazione, e in effetti ricorda la famosa Big Bambù dei fratelli Stern, ma è molto di più, è il castello costruito con le sue mani dal Re del Po, al secolo Alberto Manotti, che oggi non è in reggia, ma a tirare le righe col gesso al campo sportivo.
Ci sono invece i ragazzini che si tuffano dalla torre d’avvistamento di questo Pequod fluviale, e c’è Massimo, con gli slip rosa, che lavorava alla SME di Guastalla, ma ora fa il maestro di musica e suona il clarinetto: “Perché’ solo in Emilia può capitare che in fabbrica ti permettano di frequentare il conservatorio, il comunismo si è realizzato solo qui in Emilia, da questa parte del Po che è rosso; dall’altra parte, in Lombardia” e punta il dito con dispregio verso la sponda opposta senza guardarla “sono borghesi, bigotti e conformisti, un altro mondo…” Compagni sulla riva destra, democristiani sulla sinistra: era così ovunque quando anche nel Po scorreva l’ideologia, spesso folklorica, a volte spietata.
Dice che al Re del Po porta lo stesso rispetto che riservava a quel tizio che da bambino vedeva circolare con la Guzzi, un quadro attaccato con lo spago sulla schiena, sbeffeggiato da tutti, veniva da Luzzara e si chiamava Antonio Ligabue. Massimo dice anche che il Po non è mai stato così pulito da decenni. “Sarà perché le grandi città a monte hanno finalmente i depuratori che funzionano, sarà perché c’è la crisi e tante fabbriche sono chiuse… Ma non vediamo più la schiuma e gli argini non sono più infestati di sporte di plastica… Così bello, verde, non lo vedo da 40 anni; peccato che la gente gli ha girato le spalle; fa povero, miserabile, venire al fiume oggi… Non si sposa bene con l’iPhone. Anche i compagni vanno al mare. Questa spiaggia era la nostra Riccione, venivano i Casadei, c’erano gli ombrelloni, le angurie, il sesso… Sì anche molti morti… Il Re del Po e suo fratello in tanti anni hanno salvato 25 persone”.
Sul Po saper nuotare non basta. Quando sembra un
buon punto, come qui a Boretto, è invece di quelli particolarmente pericolosi.
Gli annegati, soprattutto ora che è più pulito e i ragazzi tornano a sfidarlo,
sono ancora una dimensione del Po, come lo era la caccia allo storione, il
totocalcio del fiume fino a quarant’anni fa e da una decina quella al siluro, o
le piene. Ci s’annega, spiega Massimo, perché, afferrati da un gorgo che tira giù,
gli si resiste anziché assecondarlo, e così si perde il fiato, mentre sarebbe
stato lui stesso a sputarti fuori, cinquanta metri più a valle, pochi secondi
dopo. Prevale il panico, l’angoscia che mette quest’acqua scura “che ti succhia
come fosse viva”. Ma a Boretto la questione oggi non è quella dei nuotatori, ma
dei natanti.
Vorrebbe essere il porto del Po, l’hub della navigabilità, punto di riferimento per la navigazione commerciale su fiume, ma dal 2007, anno della sua inaugurazione, in pratica non è mai entrato in funzione. Una decina di milioni buttati, una “cattedrale nel fiume”. È il Tec, il Terminal dell’Emilia Centrale: doveva servire da attracco per navi commerciali, un’alternativa al trasporto su strada, portare al fiume i flussi di traffico che si prestano al trasporto su acque interne: sabbie, argille, ghiaia, ma anche olio combustibile, gas, prodotti chimici, farine, materiali ferrosi… Un investimento che puntava al futuro del trasporto commerciale su una vasta area del nord Italia, fra la zona delle Ceramiche e la Motor Valley: capacità 2.500 tonnellate al giorno, l’equivalente annuale di oltre tremila autotreni tolti dal traffico stradale. Ma a Boretto le navi non sono mai arrivate. Il museo con i vaporetti dell’Ottocento e le bettoline arrugginite è diventato l’involontario monumento a questo disastro politico targato Emilia Romagna; ma anche le regioni a traino leghista, alla faccia delle ampolle e del dio Eridano, sul fronte navigabilità hanno esibito solo chiacchiere e distintivo (senza escludere, come vedremo nel nostro viaggio controcorrente, progetti altrettanto inutili e milionari). A Boretto restano la spettrale segnaletica che indica il porto, tante erbacce e l’unico piano di sviluppo sostenibile, il turismo fluviale.
Vorrebbe essere il porto del Po, l’hub della navigabilità, punto di riferimento per la navigazione commerciale su fiume, ma dal 2007, anno della sua inaugurazione, in pratica non è mai entrato in funzione. Una decina di milioni buttati, una “cattedrale nel fiume”. È il Tec, il Terminal dell’Emilia Centrale: doveva servire da attracco per navi commerciali, un’alternativa al trasporto su strada, portare al fiume i flussi di traffico che si prestano al trasporto su acque interne: sabbie, argille, ghiaia, ma anche olio combustibile, gas, prodotti chimici, farine, materiali ferrosi… Un investimento che puntava al futuro del trasporto commerciale su una vasta area del nord Italia, fra la zona delle Ceramiche e la Motor Valley: capacità 2.500 tonnellate al giorno, l’equivalente annuale di oltre tremila autotreni tolti dal traffico stradale. Ma a Boretto le navi non sono mai arrivate. Il museo con i vaporetti dell’Ottocento e le bettoline arrugginite è diventato l’involontario monumento a questo disastro politico targato Emilia Romagna; ma anche le regioni a traino leghista, alla faccia delle ampolle e del dio Eridano, sul fronte navigabilità hanno esibito solo chiacchiere e distintivo (senza escludere, come vedremo nel nostro viaggio controcorrente, progetti altrettanto inutili e milionari). A Boretto restano la spettrale segnaletica che indica il porto, tante erbacce e l’unico piano di sviluppo sostenibile, il turismo fluviale.
Saliamo sulla Stradivari, motonave di gran
fascino, 62 metri di lunghezza, 500 tonnellate di stazza e in grado di ospitare
fino a 400 passeggeri. Fu costruita 40 anni fa a Cremona con soldi pubblici per
percorrere la tratta Cremona-Ferrara-Venezia; è rimasta per lo più all’àncora
prima di finire nelle mani del comandante Giuliano Landini, uno dei più
ostinati figli del Po e campione di motonautica, specialità sportiva vanto di
Boretto: “È una corsa in salita ma io contiguo a crederci” dice. “Penso che
questo fiume per l’Italia sia un padiglione permanente a cielo aperto, altro
che Expo. A parte il suo curriculum storico, questa valle produce il 50 per
cento del Pil nazionale, dopo Danubio e Reno è il terzo fiume europeo per
portata media, 1500 m/cubi al secondo. Ma è il primo per letteratura, pittura,
architettura, musica… Una food valley senza paragoni nell’universo… Potrebbe
creare migliaia di posti di lavoro. Eppure è abbandonato. Peggio della Salerno-Reggio Calabria”. Landini spiega la famosa
bacinizzazione del fiume, cioè gli sbarramenti. “Abbiamo uno sbarramento a
Isola Serafini fra Cremona e Piacenza. È l’unico, un salto di 12 metri e una
centrale Enel. Il progetto era di farne altri cinque già dagli anni Quaranta.
Poi abbiamo perso il treno. Germania, Austria, Francia, Svizzera hanno pensato
di bacinizzare i fiumi, creare energia. E li hanno resi navigabili. Noi, come è
accaduto nel 2003, 2005, 2007 abbiamo portate ridotte a 2/300 metri cubi al
secondo, che vuol dire che il Po lo si attraversa a piedi. Con gli sbarramenti
riesci ad avere una quota stabile… Penso che sarebbe ancora possibile: questi
75 miliardi di metri cubi di acqua che ogni anno vanno a finire in mare devono
essere valorizzati per i 75.000 chilometri quadrati di bacino… Il Po ha una
caratteristica unica in Europa, è un fiume lontano dai centri abitanti,
meandriforme, un anaconda in mezzo al verde, è un fiume quasi tropicale…” E
poi, conferma il comandante, “è sempre più pulito, è tornata l’alborella, che è
un segnalatore biologico, come le lucciole di Pasolini”.
In un certo senso Oliviero Baccelli, prof di
economia dei Trasporti della Bocconi, da’ ragione al Landini: “Se parte il
turismo sul Po partono anche le merci. Il settore croceristico, come nel caso
della Stradivari, e di trasporto passeggeri sul fiume, è sicuramente da
sfruttare, soprattutto nel tratto fra Mantova e Venezia. L’itinerario
bici-crociera” assicura riferendosi alla ciclabile VenTo “potrebbe avere
sviluppi notevoli, comparabile a quel che già avviene su Reno, Elba, Danubio.
Può portare a risultati gratificanti. Nella navigabilità interna per trasporto
merci la distanza con altri paesi europei come Benelux, Francia, Germania o
Romania è enorme. In Olanda, una chiatta è come un camion e sul fiume passa di
tutto, dalla birra alle automobili, dai rifiuti ai container. In Italia ci sono
pochi operatori, poche navi. Non si può immaginare di tornare ai traffici di
sabbie e cementi che c’erano un tempo sul Po. Ma c’è qualche opportunità nella
tratta fra Cremona e l’Adriatico. Già oggi è abbastanza navigabile senza
bisogno di grandi interventi. Si potrebbe sfruttare per il trasporto di
container fra Venezia e Mantova, per mangimi o fertilizzanti. Questi sono
piccoli flussi, ma credibili. Non ci si deve aspettare grandi numeri e tante
destinazioni. Bisognerebbe costruire navi e chiatte apposta per le
caratteristiche del Po; e soprattutto ricostruire un tessuto imprenditoriale
che scommetta sul trasporto fluviale”.
A Boretto siamo arrivati dalle terre basse mantovane,
dove il fiume si dilata, avvolgendosi e tornando su se stesso. Paesini radicati
negli argini, che sembrano immutati nel tempo, piazze troppo grandi per i pochi
abitanti di oggi; cascinali che la vasta prospettiva dei campi allontana come
isole; riflessi specchiati di pioppi. Il Po qui trova la sua dimensione
orizzontale e di continuo forma pozze, stagni, si occulta. Non avendo spesso né
fretta né meta, sembra voler condurre alla contemplazione e all’oblio. Il
paesaggio diventa atmosfera. Non per nulla queste campagne vicine a Mantova
sono state care a Virgilio, che nacque nell’odierna Pietole. La campagna
intorno è coltivata, come ormai dappertutto, in maniera intensiva, eppure si
coglie ancora, tra le lanche, le golene, i boschetti e i campi, quell’idillio
che ispirò le Bucoliche. Questa riva tra l’Oglio e il Mincio è una bolla nel
tempo; e la marginalità, l’appartatezza, l’impermeabilità a mode e tecnologie
possono generare miracoli. A Borgoforte, nodo fluviale del commercio al tempo
dei Gonzaga, Roberto Pasqualini ha scoperto l’oro, cioè ha riscoperto le
argille golenali: la sua ottocentesca Fornace Polirone, posta proprio
sull’argine, restaura e ricrea pavimenti e cotti antichi. La Fornace Polirone è
l’unica salvezza per chi restaura chiese, monasteri, ville, castelli, rocche.
Il signor Pasqualini, quasi sorpreso della nostra ammirazione, mostra come da
un cotto nocciolato padano del Seicento si possano analizzare le argille del
Po, come un geologo legge nella mattonella le stratificazioni delle argille
alluvionali, le venature rosse sono terre smottate dagli Appennini, quelle
gialle dal Piemonte, quelle rosate dalle montagne lombarde… “D’altronde - dice
- la nostra cultura padana si è formata sulle stratificazioni di mondi e
tradizioni sempre diversi… Lavoriamo a mano, mattonella dopo mattonella. Salvo
qualche soluzione meccanica per alleviare certe fatiche, questa fornace è più
vicina al Rinascimento che all’era digitale”.
L’elenco degli interventi fa
pensare a cosa ci perdiamo a trascurare il Grande Fiume, c’è un Made in Po che
meriterebbe un marketing tutto suo: il pavimento di Palazzo Ducale e Palazzo Tè
a Mantova, Palazzo San Vitale, l’abbazia di Pomposa, il castello estense, la
Certosa di Parma… E poi le ville palladiane come Villa Saraceno a Vicenza, i
castelli di Masera a Sondrio, lo Sforzesco di Soncino, i palchi e i retropalchi
della Scala a Milano. “Ora stiamo ultimando Villa Pliniana sul lago di Como”
dice Pasqualini, braccio armato dei Beni Culturali, eppure mai andato in tivù.
Da qualche anno ha varcato le Alpi, incaricato di rifare i pavimenti del
castello di Weimar e di quello del Lichtestein. Da cinque anni stabilmente in
Francia: “Ora lavoriamo all’Hotel Des Invalides a Parigi” dice. E spiega che
non esiste un solo libro sul restauro del pavimento in cotto: “Ne trovi mille
su quelli in marmo o in legno… Rischiamo di perdere un patrimonio di sapere…
Penso al Politecnico di Milano, dovrebbe fare qualcosa. Oggi si danno montagne
di soldi a chi fa il salame, ma a chi impasta un cotto del Seicento nulla”.
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Roberto Pasqualini, titolare della Fornace Polirone |
Eppure il richiamo del porco ci spinge nella
risalita, verso la bassa parmigiana dove stagiona il culatello di Zibello,
verso Brescello, dove Leone I fermò gli Unni di Attila che calavano su Roma e
dove fu girato il Mondo piccolo di Don Camillo. Insomma dove il Po, con
Guareschi e Verdi, diventa fiume di parole e musica.
4/8 The River Journal Project
testo di Marzio G. Mian e Nicola Scevola
Foto di Nanni Fontana e Massimo Di Nonno
Pubblicato su Sette
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