Oggi teoricamente il mondo produce cibo
sufficiente per sfamare tutti i suoi abitanti. Il problema è che la ricchezza
non è equamente distribuita, quindi alcuni si abboffano mentre circa un
miliardo soffre la fame. Ma le previsioni per il prossimo futuro sono ancor più
fosche: la popolazione mondiale sta crescendo rapidamente e si prevede che nel
2050 sulla terra saremo 9,7 miliardi. A quel punto, le stime fatte delle
Nazioni Unite dicono che per dar da mangiare a tutti la produzione di materie
prime e cibo dovrà aumentare di circa 60%. Altrimenti, il numero di chi sente i
morsi della fame potrebbe moltiplicarsi. Questo perché, a detta degli esperti,
stiamo già producendo quasi il massimo possibile con i metodi oggi in uso. Ma
sfamare tutti non è l’unico problema. Bisogna anche assicurare che il cibo
abbia qualità nutritive adatte e che non sia portatore di virus e batteri,
alcuni dei quali difficilmente controllabili perché in continua evoluzione,
come la Escherichia Coli o la Listeria.
Tutto questo rende la sfida alimentare
uno dei problemi più urgenti del nostro tempo. Tanto da spingere David Rieff, saggista
statunitense che
si occupa di questioni umanitarie, a scrivere un libro per analizzare il problema e misurare le risposte messe
in campo fino a ora. Dopo l’ultimo mémoire
intimo dedicato alla morte della madre Susan Sontag (Senza consolazione), l’autore 63enne ritorna così ai temi più
socialmente impegnati dei lavori precedenti, come Un giaciglio per la notte e Crimini
di guerra. Il nuovo saggio, intitolato The
reproach of hunger (Simon&Schuster), è
il risultato di sei anni di studi, viaggi sul campo, interviste a esperti, ed è
uno di quei testi destinati a far discutere.
Nell’introduzione, l’autore dichiara
subito che le sue opinioni “sono prevalentemente pessimiste”, e per telefono ci
conferma: “Nonostante le Nazioni Unite parlino di abolire la povertà entro il
2030, non si capisce ancora se saremo in grado di proteggere le fasce di
popolazione più svantaggiate”.
Allo stesso tempo, però, ammette che “è
possibile che fra 20 anni si appurerà che erano gli ottimisti ad avere
ragione”.
Nel suo saggio, Rieff valuta la sfida
tenendo in considerazione le variabili legate al cambiamento climatico e al
fatto che di frequente i governi più bisognosi di aiuti allo sviluppo sono
anche i più instabili. Mette in evidenza le relazioni spesso troppo vicine fra
il settore filantropico e i giganti dell’agribusiness come Monsanto e Sygenta. E
ha il coraggio di prendersela con chi solitamente è considerato al di sopra
delle parti, grazie ai generosi assegni staccati a favore delle cause
umanitarie: i cosiddetti filantro-capitalisti alla Bill Gates e Warren Buffett
che, grazie alle loro enormi possibilità di spesa, finiscono coll’influenzare dall’alto
l’agenda dei programmi di sviluppo internazionali. L’autore analizza la
possibilità di risolvere il problema della fame nel mondo grazie a tre soluzioni
diverse, che sono quelle più comunemente ascoltate nei dibattiti pubblici: i
movimenti rivoluzionari di stampo no-global (a cui strizza l’occhio senza restarne
convinto), gli avanzamenti delle biotecnologie per aumentare la produttività e
le capacità di sviluppo del libero mercato. Arrivando alla conclusione che
nessuno di questi sistemi è adeguato. Fra queste, però, è l’ultima ipotesi
quella che raccoglie le critiche maggiori. Alla fine, pur senza offrire
soluzioni alternative concrete, Rieff indica una direzione in cui a suo avviso
converrebbe muoversi.
“La soluzione scelta da gran parte dei
paesi in via di sviluppo è di permettere alle multinazionali di guidare il
processo, ma questo è un grave errore”, spiega. “La strada giusta, anche se
poco accattivante, semmai è quella di rafforzare nuovamente lo Stato. La fame è
un problema politico e in politica lo Stato è l’unico attore legittimo, perché
è l’unico che deve rendere conto ai cittadini”.
Pubblicato su L'Uomo Vogue
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