giovedì 5 maggio 2016

L'Indiana Jones della Siria

Le rovine di Palmira
Il suo boss è uno dei peggiori dittatori rimasti in circolazione. E quando si lavora per un referente del genere, il rischio di restare isolati è altissimo. Per questo il capo del dipartimento siriano per le antichità non smette di rimarcare il suo ruolo super partes. Il messaggio che tiene a sottolineare è chiaro: la difesa del patrimonio siriano dalla guerra civile non ha colore politico.
“E’ una questione di civiltà che riguarda l’umanità intera”, dice il Maamoun Abdulkarim, l’archeologo incaricato di proteggere gli oltre 10.000 siti mesopotamici, romani e bizantini da bombe, tombaroli e fanatici islamisti capaci di prendersela con statue e templi antichi in nome di un’interpretazione bislacca della religione.
La giacca grigia, con le maniche troppo lunghe in cui sembra cascare dentro, dà ad Abdulkarim un’aria quasi rassegnata. Ma lo sguardo combattivo e il tono infervorato con cui ci parla raccontano un’altra storia.
“Sono l’archeologo più triste del mondo”, sottolinea l’ex docente dell’università di Damasco, venuto in Italia per sensibilizzare la comunità internazionale sul tema. “Appena nominato nell’estate del 2012 ho dovuto chiudere tutti i musei del paese”.
Abdulkarim temeva che si ripetesse ciò che è accaduto in Iraq nei mesi di caos del dopo-Saddam e per questo ha fatto trasportare migliaia di reperti nei depositi di Damasco. Nelle zone ancora controllate dal governo, l’ha fatto con l’aiuto di mezzi e uomini dell’esercito. Mentre negli altri territori, si è rivolto direttamente ai membri della società civile e religiosa che in molti casi hanno collaborato volentieri. Rimangono però tutti i siti archeologici all’aperto, diventati facili bersagli di vandali e predatori. Il simbolo di questa distruzione è stata la caduta di Palmira nelle mani dei militanti dell’Isis avvenuta nel maggio 2015. Oltre ad aver decapitato il responsabile degli scavi, Khaled al-Asaad, i ribelli hanno distrutto buona parte dei resti di quella che fra I e III secolo d.C. fu una delle capitali culturali e commerciali del Medio Oriente, soprannominata la Venezia del Deserto.
Ma i fanatici iconoclasti del Califfato sono solo uno dei pericoli che pende sul patrimonio 
Maamoun Abdulkarim
siriano. I bombardamenti e la lotta armata fra il governo e le fazioni ribelli più laiche hanno fatto danni spaventosi. La città di Aleppo, sede di una delle più importanti medine del Medio Oriente, è ridotta in macerie. E il governo di Damasco non è mai sembrato troppo preoccupato di proteggere i resti di civiltà antiche quando si è trattato di schiacciare i rivoltosi. Questa constatazione rende più difficile il lavoro di Abdulkarim. All’inizio della guerra civile, infatti, i governi stranieri gli hanno chiuso la porta in faccia, come se la scelta di bombardare un sito dipendesse dal Dipartimento per le Antichità.
“Ma il nostro patrimonio archeologico è di tutti i siriani, non di chi è al governo a Damasco”, sottolinea Abdulkarim. “Per questo chiedo la collaborazione dei governi stranieri”.
Secondo le stime dei servizi segreti americani, il contrabbando di reperti è diventato la principale fonte di finanziamento delle fazioni in guerra dopo il petrolio. Ma che cosa potrebbe fare la comunità internazionale per aiutare la situazione oltre a facilitare le condizioni per fermare la guerra civile?
“Bloccare i traffici internazionali che portano reperti siriani sui mercati europei e americani. E fare pressioni sui paesi confinanti affinché ci aiutino a limitare le esportazioni illegali”.
Alla fine della nostra conversazione, Adbulkarim mi ha convinto. Tutti abbiamo da perdere non collaborando alla salvaguardia del nostro passato. Per questo, nonostante l’aquila dorata simbolo del regime di Bashar al-Assad che luccica sul suo biglietto da visita, sono dalla sua parte. E guardandolo allontanarsi a piedi da Montecitorio verso Largo Chigi, la sua giacca troppo grande comincia quasi a ricordarmi quella di pelle marrone di Indiana Jones.

Pubblicato su L'Uomo Vogue

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