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Le rovine di Palmira |
Il suo boss è uno dei peggiori dittatori
rimasti in circolazione. E quando si lavora per un referente del genere, il
rischio di restare isolati è altissimo. Per questo il capo del dipartimento
siriano per le antichità non smette di rimarcare il suo ruolo super partes. Il messaggio che tiene a
sottolineare è chiaro: la difesa del patrimonio siriano dalla guerra civile non
ha colore politico.
“E’ una questione di civiltà che riguarda
l’umanità intera”, dice il Maamoun Abdulkarim, l’archeologo incaricato di proteggere
gli oltre 10.000 siti mesopotamici, romani e bizantini da bombe, tombaroli e
fanatici islamisti capaci di prendersela con statue e templi antichi in nome di
un’interpretazione bislacca della religione.
La giacca grigia, con le maniche troppo
lunghe in cui sembra cascare dentro, dà ad Abdulkarim un’aria quasi rassegnata.
Ma lo sguardo combattivo e il tono infervorato con cui ci parla raccontano
un’altra storia.
“Sono l’archeologo più triste del mondo”, sottolinea l’ex docente dell’università di Damasco, venuto in Italia per sensibilizzare la comunità internazionale sul tema. “Appena nominato nell’estate del 2012 ho dovuto chiudere tutti i musei del paese”.
“Sono l’archeologo più triste del mondo”, sottolinea l’ex docente dell’università di Damasco, venuto in Italia per sensibilizzare la comunità internazionale sul tema. “Appena nominato nell’estate del 2012 ho dovuto chiudere tutti i musei del paese”.
Abdulkarim temeva che si ripetesse ciò che
è accaduto in Iraq nei mesi di caos del dopo-Saddam e per questo ha fatto
trasportare migliaia di reperti nei depositi di Damasco. Nelle zone ancora controllate
dal governo, l’ha fatto con l’aiuto di mezzi e uomini dell’esercito. Mentre
negli altri territori, si è rivolto direttamente ai membri della società civile
e religiosa che in molti casi hanno collaborato volentieri. Rimangono però
tutti i siti archeologici all’aperto, diventati facili bersagli di vandali e
predatori. Il simbolo di questa distruzione è stata la caduta di Palmira nelle
mani dei militanti dell’Isis avvenuta nel maggio 2015. Oltre ad aver decapitato
il responsabile degli scavi, Khaled al-Asaad, i ribelli hanno distrutto buona
parte dei resti di quella che fra I e III secolo d.C. fu una delle capitali
culturali e commerciali del Medio Oriente, soprannominata la Venezia del
Deserto.
Ma i fanatici iconoclasti del Califfato sono
solo uno dei pericoli che pende sul patrimonio
siriano. I bombardamenti e la
lotta armata fra il governo e le fazioni ribelli più laiche hanno fatto danni
spaventosi. La città di Aleppo, sede di una delle più importanti medine del
Medio Oriente, è ridotta in macerie. E il governo di Damasco non è mai sembrato
troppo preoccupato di proteggere i resti di civiltà antiche quando si è
trattato di schiacciare i rivoltosi. Questa constatazione rende più difficile
il lavoro di Abdulkarim. All’inizio della guerra civile, infatti, i governi
stranieri gli hanno chiuso la porta in faccia, come se la scelta di bombardare
un sito dipendesse dal Dipartimento per le Antichità.
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Maamoun Abdulkarim |
“Ma il nostro patrimonio archeologico è di
tutti i siriani, non di chi è al governo a Damasco”, sottolinea Abdulkarim.
“Per questo chiedo la collaborazione dei governi stranieri”.
Secondo le stime dei servizi segreti
americani, il contrabbando di reperti è diventato la principale fonte di
finanziamento delle fazioni in guerra dopo il petrolio. Ma che cosa potrebbe
fare la comunità internazionale per aiutare la situazione oltre a facilitare le
condizioni per fermare la guerra civile?
“Bloccare i traffici internazionali che
portano reperti siriani sui mercati europei e americani. E fare pressioni sui
paesi confinanti affinché ci aiutino a limitare le esportazioni illegali”.
Alla fine della nostra conversazione,
Adbulkarim mi ha convinto. Tutti abbiamo da perdere non collaborando alla
salvaguardia del nostro passato. Per questo, nonostante l’aquila dorata simbolo
del regime di Bashar al-Assad che luccica sul suo biglietto da visita, sono
dalla sua parte. E guardandolo allontanarsi a piedi da Montecitorio verso Largo
Chigi, la sua giacca troppo grande comincia quasi a ricordarmi quella di pelle
marrone di Indiana Jones.
Pubblicato su L'Uomo Vogue
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