Ultima puntata del viaggio del River Journal Project lungo il Missouri, il grande fiume che attraversa l'heartland americano.
Siamo alle sorgenti del Missouri, luogo sacro della nazione. In realtà non è proprio una sorgente, perché si tratta della confluenza di tre torrentelli, il Jefferson, il Madison e il Gallatin, una triforcazione chiamata appunto Three Forks. Sembra in effetti che i tre fiumiciattoli lavorino in concerto, gorgoglino allo stesso ritmo regolare e immettano tutti la medesima quantità d’acqua in un corso tutto nuovo, chiamato a rispondere a un destino ben più impegnativo del loro. La piana diffonde una forte carica spirituale, forse proprio per quel contrasto tra un contesto naturale senza gran carattere – banchi sabbiosi, qualche tronco marcito, sterpaglia, addirittura un’infilata disordinata di tralicci per l’alta tensione - e la sincronica affluenza dei tre umili corsi nel Missouri, che da qui parte a bomba, già turgido di carisma. I 33 argonauti della Corps of Discovery ne presero atto, rinunciarono a decidere quale fosse la goccia madre, stabilirono qui le Bocche del Ponto della nuova America e proseguirono oltre le Montagne Rocciose alla ricerca del Vello d’Oro, la via dell’Ovest verso il Pacifico.
“Secondo me lì sentirete la presenza di Dio, o lo spirito della heartland, il cuore della terra americana…” ci aveva detto un cowboy che faceva benzina dalle parti di Fort Benton, qui in Montana, forse il più poetico e curato centro rivierasco visitato in questo nostro viaggio sulle tracce della spedizione di Lewis e Clark - cinquemila chilometri lungo il Missouri da Saint Louis fino quassù alle falde delle Rockies, praticamente quasi Canada. “Non è un caso che lì si trovi sempre un alce dalle grandi corna… Io l’ho vista, una creatura di una bellezza incredibile”.
Siamo alle sorgenti del Missouri, luogo sacro della nazione. In realtà non è proprio una sorgente, perché si tratta della confluenza di tre torrentelli, il Jefferson, il Madison e il Gallatin, una triforcazione chiamata appunto Three Forks. Sembra in effetti che i tre fiumiciattoli lavorino in concerto, gorgoglino allo stesso ritmo regolare e immettano tutti la medesima quantità d’acqua in un corso tutto nuovo, chiamato a rispondere a un destino ben più impegnativo del loro. La piana diffonde una forte carica spirituale, forse proprio per quel contrasto tra un contesto naturale senza gran carattere – banchi sabbiosi, qualche tronco marcito, sterpaglia, addirittura un’infilata disordinata di tralicci per l’alta tensione - e la sincronica affluenza dei tre umili corsi nel Missouri, che da qui parte a bomba, già turgido di carisma. I 33 argonauti della Corps of Discovery ne presero atto, rinunciarono a decidere quale fosse la goccia madre, stabilirono qui le Bocche del Ponto della nuova America e proseguirono oltre le Montagne Rocciose alla ricerca del Vello d’Oro, la via dell’Ovest verso il Pacifico.
“Secondo me lì sentirete la presenza di Dio, o lo spirito della heartland, il cuore della terra americana…” ci aveva detto un cowboy che faceva benzina dalle parti di Fort Benton, qui in Montana, forse il più poetico e curato centro rivierasco visitato in questo nostro viaggio sulle tracce della spedizione di Lewis e Clark - cinquemila chilometri lungo il Missouri da Saint Louis fino quassù alle falde delle Rockies, praticamente quasi Canada. “Non è un caso che lì si trovi sempre un alce dalle grandi corna… Io l’ho vista, una creatura di una bellezza incredibile”.

Gli atei
organizzati. Nel nostro più modesto Grand Tour lungo il fiume che
attraversa la cosiddetta Real America e che custodisce gli ingredienti
identitari fondanti del Paese, abbiamo scoperto che l’anima americana è in movimento.
Qui in Montana, ultimo Stato dell’Unione, fondato solo un secolo fa, ma diventato
la quintessenza della cultura western e del comunitarismo rurale, la funzione
della domenica è rimasta rito famigliare, quasi come nelle campagne italiane
fino agli anni Sessanta: dalle fattorie partono carovane di pick-up dirette
alle chiese della contea, anche a 40 chilometri di distanza; tutti lavati e
lustrati, uomini con un bianco Stetson in capo, l’ampio cappello da rancher,
donne con gonne di ciniglia nei colori pastello e i bambini in camicia a quadri
e gilettino. Ma più a valle molte certezze vengono meno. In Nebraska abbiamo
incontrato un gruppo di atei organizzati, praticamente degli eretici. Fino a
pochi anni fa sarebbe stato impossibile. Uno studio della Pew Foundation ha
recentemente stabilito che oggi ben il 7 per cento della popolazione ha il
coraggio di dichiararsi atea, nonostante la maggioranza degli americani
continui a ritenere chi non crede in nulla “l’individuo più pericoloso della
società”.
Tom Grey, il presidente della congrega, ex ufficiale dell’aeronautica e sosia di Jim Carrey, è stato tra gli organizzatori del Reason Rally a Washington, la marcia della Ragione che ai primi di giugno ha radunato oltre trentamila persone per chiedere una più netta separazione tra politica e religione. “Vogliamo far capire che non siamo mostri, che si può essere bravi americani anche senza Dio” dice nella sede di Omaha, dove si distribuiscono i libri di Christopher Hitchens, The God Delusion di Richard Dawkins, The End of Faith di Sam Harris. Lo scorso Natale sono riusciti a ottenere spazi pubblici per erigere al posto del presepe un Albero della Ragione, dedicato alla scienza e ai “successi frutto dell’intelletto umano”.
Tom Grey, il presidente della congrega, ex ufficiale dell’aeronautica e sosia di Jim Carrey, è stato tra gli organizzatori del Reason Rally a Washington, la marcia della Ragione che ai primi di giugno ha radunato oltre trentamila persone per chiedere una più netta separazione tra politica e religione. “Vogliamo far capire che non siamo mostri, che si può essere bravi americani anche senza Dio” dice nella sede di Omaha, dove si distribuiscono i libri di Christopher Hitchens, The God Delusion di Richard Dawkins, The End of Faith di Sam Harris. Lo scorso Natale sono riusciti a ottenere spazi pubblici per erigere al posto del presepe un Albero della Ragione, dedicato alla scienza e ai “successi frutto dell’intelletto umano”.

Aria di rivolta. Nella prateria
tira un vento che porta via. Ai lati della strada sterrata che attraversa la
Contea di Philips in Montana, l’erba ondeggia come un mare in tempesta, anche la
grossa Jeep dondola e, se aprissi la portiera, le raffiche da 130 chilometri
l’ora la strapperebbero come un foglio di giornale, è uno degli scherzi più
frequenti che la natura potente di questo Stato riserva ai viaggiatori meno
avvertiti.
Tornado e bufere estive piombano come falchi nel grande nulla fatto di prati selvaggi, pascoli e distese di grano; a volte qualche stalla resta senza tetto, e se ne vanno in pochi minuti, lasciando un’aria lucida come un bicchiere di cristallo. Nel piccolo villaggio di Malta (i nomi da queste parti venivano scelti dai capocantiere della ferrovia puntando alla cieca un dito sul mappamondo) la signora Vicki Olson, rancher titolare di 20 mila acri, dice che ha appena incontrato degli storm-chasers, alcuni erano italiani, pazzi che vanno a caccia di tornado per filmarli il più vicino possibile. “Li capisco, sono emozioni forti che solo il Montana può offrire. Qui tutto è così vero e crudo. Anche il contrasto tra la cultura elitaria della città e la vita grama, ma sublime, della prateria”. Si riferisce alla cosiddetta Soul Rush, la “corsa all’anima” del Montana, gente ricca che arriva in cerca di spiritualità isolandosi nei paesaggi maestosi del Glacier National Park, per meditare nei boschi, costruire ranch lussuosi lungo il Missouri: sono magnate dei media come David Letterman e Ted Turner o star di Hollywood come Jane Fonda e Steven Seagal che hanno comprato fettone di terra nella zona di Bozeman. Ma soprattutto Vicki si riferisce alla storiaccia del Parco, emblematica di un confronto città-provincia che viviamo anche noi in Europa (pensiamo alla Brexit, dove Londra ha votato come fosse un mondo estraneo al resto del Paese). Un’organizzazione filantropica con sede in California sta acquisendo dai ranchers immense estensioni di prateria, si chiama American Prairie Reserve: l’obiettivo è di accumulare 3,5 milioni di acri nel Nord Est del Montana per creare una riserva naturale grande quanto lo Stato del Connecticut o lo Yellowstone e il Glacier National Park messi insieme. “L’ecosistema della prateria va preservato” sostiene Damien Austin, portavoce della non-profit la quale, rifiutandosi di fare i nomi dei vip donatori e di rendere pubblici i bilanci e le cifre offerte ai contadini per acquisire le terre, sta alimentando il venticello delle teorie complottiste. “C’è sempre chi vede il cambiamento come una minaccia… noi rappresentiamo il West evoluto del Terzo Millennio” ci dice Austin. Ma Vicki parla a nome di un mondo intrinsecamente legato alla cultura pionieristica americana, che rischia di essere spazzato via per consentire l’inserimento di diecimila bufali allo stato brado: “Noi siamo quelli che si prendono cura della terra, la gente di città è così distaccata dalla vita rurale che non si rende conto che se non ci sono mucche al pascolo e campi di grano non ci saranno più pane, latte, carne. La contea di Phillips produce cibo per due milioni e mezzo di persone ogni anno”.
Tornado e bufere estive piombano come falchi nel grande nulla fatto di prati selvaggi, pascoli e distese di grano; a volte qualche stalla resta senza tetto, e se ne vanno in pochi minuti, lasciando un’aria lucida come un bicchiere di cristallo. Nel piccolo villaggio di Malta (i nomi da queste parti venivano scelti dai capocantiere della ferrovia puntando alla cieca un dito sul mappamondo) la signora Vicki Olson, rancher titolare di 20 mila acri, dice che ha appena incontrato degli storm-chasers, alcuni erano italiani, pazzi che vanno a caccia di tornado per filmarli il più vicino possibile. “Li capisco, sono emozioni forti che solo il Montana può offrire. Qui tutto è così vero e crudo. Anche il contrasto tra la cultura elitaria della città e la vita grama, ma sublime, della prateria”. Si riferisce alla cosiddetta Soul Rush, la “corsa all’anima” del Montana, gente ricca che arriva in cerca di spiritualità isolandosi nei paesaggi maestosi del Glacier National Park, per meditare nei boschi, costruire ranch lussuosi lungo il Missouri: sono magnate dei media come David Letterman e Ted Turner o star di Hollywood come Jane Fonda e Steven Seagal che hanno comprato fettone di terra nella zona di Bozeman. Ma soprattutto Vicki si riferisce alla storiaccia del Parco, emblematica di un confronto città-provincia che viviamo anche noi in Europa (pensiamo alla Brexit, dove Londra ha votato come fosse un mondo estraneo al resto del Paese). Un’organizzazione filantropica con sede in California sta acquisendo dai ranchers immense estensioni di prateria, si chiama American Prairie Reserve: l’obiettivo è di accumulare 3,5 milioni di acri nel Nord Est del Montana per creare una riserva naturale grande quanto lo Stato del Connecticut o lo Yellowstone e il Glacier National Park messi insieme. “L’ecosistema della prateria va preservato” sostiene Damien Austin, portavoce della non-profit la quale, rifiutandosi di fare i nomi dei vip donatori e di rendere pubblici i bilanci e le cifre offerte ai contadini per acquisire le terre, sta alimentando il venticello delle teorie complottiste. “C’è sempre chi vede il cambiamento come una minaccia… noi rappresentiamo il West evoluto del Terzo Millennio” ci dice Austin. Ma Vicki parla a nome di un mondo intrinsecamente legato alla cultura pionieristica americana, che rischia di essere spazzato via per consentire l’inserimento di diecimila bufali allo stato brado: “Noi siamo quelli che si prendono cura della terra, la gente di città è così distaccata dalla vita rurale che non si rende conto che se non ci sono mucche al pascolo e campi di grano non ci saranno più pane, latte, carne. La contea di Phillips produce cibo per due milioni e mezzo di persone ogni anno”.
Falce e grilletto. Lo zoccolo duro
degli allevatori ribelli sta nell’area di Zortman, una città fantasma dei tempi
della corsa all’oro, appollaiata a 1400 metri sulle Little Rocky Mountains, già
rifugio di Kid Curry, il più feroce membro della Wild Bunch, la banda di
fuorilegge che terrorizzava il West a fine Ottocento, di cui facevano parte
anche Butch Cassidy e Sundance Kid – c’è ancora la gattabuia con qualche foro
di Colt. Si vede che nell’aria circola lo stesso spirito contadino ribelle.
“Non venderò mai, per nessuna cifra al mondo. Mai” dice Ed Bibeau, allevatore
di pecore, vitelli e manzi: “Ma qui la gente invecchia, i figli se ne vanno,
questi ricconi hanno buon gioco a convincere molti proprietari a vendere. Ma
poi non puoi più entrare al saloon, gli amici ti girano le spalle. Diventi un
traditore. Comunque questa storia del Parco ha fatto lievitare il prezzo della
terra, nessun giovane è più in grado di comprare un appezzamento e così la
nostra cultura rischia di scomparire”.
George Brown è il cowboy della pompa di benzina, quello dell’alce di Three
Forks; cappello nero e speroni, sguardo alla Lee Van Cleef, ha marchiato manzi
tutto il giorno a cavallo, alla vecchia maniera: “Siamo in pochi ormai, tutti
usano i quod, meno fatica. Ma anche meno poesia e silenzio” dice. “Quelli del
Parco? Sono della stessa razza di quelli che hanno rinchiuso gli indiani nelle
riserve e hanno ucciso i bisonti solo per sport. Ora vogliono cacciare i
rancher e rimetterci i bisonti… I cowboy sono i nuovi pellerossa. Ma anche
questa è l’America, sempre in movimento, sempre in viaggio”. Ecco forse George
Brown ha interpretato il senso della spedizione di Lewis&Clark, gli uomini
che fecero l’impresa: la Storia degli Stati Uniti è un susseguirsi di viaggi, i
pionieri europei, gli schiavi dall’Africa, i neri del Sud che migrano nelle
metropoli operaie, i cinesi in California, i sudamericani che si spostano al
Norte… la Route 66, Mark Twain... Con il loro grande viaggio i nostri mitici battistrada
sulla rotta del West hanno contribuito a forgiare questa identità in movimento.
Se la Guerra Civile è stata l’Iliade americana, la Corps of Expedition è stata
la loro Odissea.
Pubblicato su Sette del Corriere della Sera
5/5 The River Journal Project
testo di Marzio G. Mian e Nicola Scevola
Foto di Nanni Fontana e Massimo Di Nonno
Pubblicato su Sette del Corriere della Sera
1 commento:
Thanks for ones marvelous posting! I certainly enjoyed reading it, you are a great author. I will make certain to bookmark your blog and will often come back sometime soon. I want to encourage you to continue your great job, have a nice afternoon! capitalone.com login
Posta un commento