venerdì 24 febbraio 2017

Montana, dove i cowboy sono i nuovi pellerossa


Ultima puntata del viaggio del River Journal Project lungo il Missouri, il grande fiume che attraversa l'heartland americano.

Siamo alle sorgenti del Missouri, luogo sacro della nazione. In realtà non è proprio una sorgente, perché si tratta della confluenza di tre torrentelli, il Jefferson, il Madison e il Gallatin, una triforcazione chiamata appunto Three Forks. Sembra in effetti che i tre fiumiciattoli lavorino in concerto, gorgoglino allo stesso ritmo regolare e immettano tutti la medesima quantità d’acqua in un corso tutto nuovo, chiamato a rispondere a un destino ben più impegnativo del loro. La piana diffonde una forte carica spirituale, forse proprio per quel contrasto tra un contesto naturale senza gran carattere – banchi sabbiosi, qualche tronco marcito, sterpaglia, addirittura un’infilata disordinata di tralicci per l’alta tensione - e la sincronica affluenza dei tre umili corsi nel Missouri, che da qui parte a bomba, già turgido di carisma. I 33 argonauti della Corps of Discovery ne presero atto, rinunciarono a decidere quale fosse la goccia madre, stabilirono qui le Bocche del Ponto della nuova America e proseguirono oltre le Montagne Rocciose alla ricerca del Vello d’Oro, la via dell’Ovest verso il Pacifico. 

“Secondo me lì sentirete la presenza di Dio, o lo spirito della heartland, il cuore della terra americana…” ci aveva detto un cowboy che faceva benzina dalle parti di Fort Benton, qui in Montana, forse il più poetico e curato centro rivierasco visitato in questo nostro viaggio sulle tracce della spedizione di Lewis e Clark - cinquemila chilometri lungo il Missouri da Saint Louis fino quassù alle falde delle Rockies, praticamente quasi Canada. “Non è un caso che lì si trovi sempre un alce dalle grandi corna… Io l’ho vista, una creatura di una bellezza incredibile”.

L’enigma di Tocqueville. Dal pragmatismo calvinista e luterano, al misticismo quasi permeato dal culto panteista degli indiani, alla devozione civica per la Patria eletta, fino alla degenerazione suprematista, la vocazione al trascendente degli americani - gli stessi diventati simbolo della deriva  materialista e capitalista occidentale - ha sempre intrigato e disorientato il viaggiatore europeo. Il primo a rimanerne affascinato fu Alexis de Tocqueville, che compì un “Grand Tour alla rovescia”, andando alla scoperta delle radici dell’Occidente moderno tra i discendenti degli europei fuggiti dai dogmi e affamati di libertà e avventura. “In Europa la diffusione dell’illuminismo e del pensiero libertario hanno ridotto il potere e la devozione religiosi, libertà e religione hanno preso vie contrapposte; mi chiedo come sia possibile che in America libertà e religione possano convivere così in armonia” scriveva mentre viaggiava nel Sud ora definito la Bible Belt d’America, la regione più bigotta. E aggiungeva: “Anzi, anche nelle classi più illuminate è radicata l’idea che il cittadino non cristiano non sia socialmente affidabile”.

 Gli atei organizzati. Nel nostro più modesto Grand Tour lungo il fiume che attraversa la cosiddetta Real America e che custodisce gli ingredienti identitari fondanti del Paese, abbiamo scoperto che l’anima americana è in movimento. Qui in Montana, ultimo Stato dell’Unione, fondato solo un secolo fa, ma diventato la quintessenza della cultura western e del comunitarismo rurale, la funzione della domenica è rimasta rito famigliare, quasi come nelle campagne italiane fino agli anni Sessanta: dalle fattorie partono carovane di pick-up dirette alle chiese della contea, anche a 40 chilometri di distanza; tutti lavati e lustrati, uomini con un bianco Stetson in capo, l’ampio cappello da rancher, donne con gonne di ciniglia nei colori pastello e i bambini in camicia a quadri e gilettino. Ma più a valle molte certezze vengono meno. In Nebraska abbiamo incontrato un gruppo di atei organizzati, praticamente degli eretici. Fino a pochi anni fa sarebbe stato impossibile. Uno studio della Pew Foundation ha recentemente stabilito che oggi ben il 7 per cento della popolazione ha il coraggio di dichiararsi atea, nonostante la maggioranza degli americani continui a ritenere chi non crede in nulla “l’individuo più pericoloso della società”. 
Tom Grey, il presidente della congrega, ex ufficiale dell’aeronautica e sosia di Jim Carrey, è stato tra gli organizzatori del Reason Rally a Washington, la marcia della Ragione che ai primi di giugno ha radunato oltre trentamila persone per chiedere una più netta separazione tra politica e religione. “Vogliamo far capire che non siamo mostri, che si può essere bravi americani anche senza Dio” dice nella sede di Omaha, dove si distribuiscono i libri di Christopher Hitchens, The God Delusion di Richard Dawkins, The End of Faith di Sam Harris. Lo scorso Natale sono riusciti a ottenere spazi pubblici per erigere al posto del presepe un Albero della Ragione, dedicato alla scienza e ai “successi frutto dell’intelletto umano”.

L’Arca di Noè. La guerra tra atei e credenti è anche combattuta a colpi di slogan lungo le highways, dove trovi cartelloni che invitano a telefonare a un certo numero per informazioni sulla vita eterna, così come t’imbatti in appelli per contrastare il creazionismo che negli Stati Uniti trova espressioni estreme tipo la recente costruzione in Kentucky dell’Arca di Noè, lunga 137 metri e larga 40, opera finanziata da Ken Ham, il predicatore più richiesto del momento: “Darwin aveva ragione! L’evoluzione è una realtà di fatto. Mentre la teoria che Terra abbia 6000 anni è una fandonia” hanno scritto i senza Dio su una curva della circonvallazione di Sioux Fall, Sud Dakota. Gli atei del Nebraska dicono che nelle scuole i loro figli sono discriminati, che vengono esclusi nelle attività filantropiche di quartiere e che per loro è più difficile far carriera; ma anche che, per la prima volta dopo tanti anni, in questa campagna elettorale non si è mai pronunciata la parola Dio. Anche Donald Trump, che poteva provarci per corteggiare gli evangelici, si è trattenuto: “Nel Duemila sia Al Gore che George W. Bush presentarono la loro rinascita nel Cristo come fosse un master in economia politica. Bush disse alla tv che Cristo era il suo filosofo preferito”, dicono i senza fede. Accusati a loro volta di aver creato una nuova chiesa: “Credono in modo cieco nell’assenza di Dio” sostiene Dave Clark, conduttore della potente catena radiofonica religiosa Fish. “Ci odiano. Sono sconvolto dal crollo dei valori americani, peggio del Sessantotto. Siamo in ostaggio di piccole minoranze, atei, gay, afroamericani… Tutti lì a chiedere diritti. Ora sembra che la priorità del Paese sia di concedere ai transessuali il diritto di entrare nel bagno che gli va più a genio”.

Aria di rivolta. Nella prateria tira un vento che porta via. Ai lati della strada sterrata che attraversa la Contea di Philips in Montana, l’erba ondeggia come un mare in tempesta, anche la grossa Jeep dondola e, se aprissi la portiera, le raffiche da 130 chilometri l’ora la strapperebbero come un foglio di giornale, è uno degli scherzi più frequenti che la natura potente di questo Stato riserva ai viaggiatori meno avvertiti. 
Tornado e bufere estive piombano come falchi nel grande nulla fatto di prati selvaggi, pascoli e distese di grano; a volte qualche stalla resta senza tetto, e se ne vanno in pochi minuti, lasciando un’aria lucida come un bicchiere di cristallo. Nel piccolo villaggio di Malta (i nomi da queste parti venivano scelti dai capocantiere della ferrovia puntando alla cieca un dito sul mappamondo) la signora Vicki Olson, rancher titolare di 20 mila acri, dice che ha appena incontrato degli storm-chasers, alcuni erano italiani, pazzi che vanno a caccia di tornado per filmarli il più vicino possibile. “Li capisco, sono emozioni forti che solo il Montana può offrire. Qui tutto è così vero e crudo. Anche il contrasto tra la cultura elitaria della città e la vita grama, ma sublime, della prateria”. Si riferisce alla cosiddetta Soul Rush, la “corsa all’anima” del Montana, gente ricca che arriva in cerca di spiritualità isolandosi nei paesaggi maestosi del Glacier National Park, per meditare nei boschi, costruire ranch lussuosi lungo il Missouri: sono magnate dei media come David Letterman e Ted Turner o star di Hollywood come Jane Fonda e Steven Seagal che hanno comprato fettone di terra nella zona di Bozeman. Ma soprattutto Vicki si riferisce alla storiaccia del Parco, emblematica di un confronto città-provincia che viviamo anche noi in Europa (pensiamo alla Brexit, dove Londra ha votato come fosse un mondo estraneo al resto del Paese). Un’organizzazione filantropica con sede in California sta acquisendo dai ranchers immense estensioni di prateria, si chiama American Prairie Reserve: l’obiettivo è di accumulare 3,5 milioni di acri nel Nord Est del Montana per creare una riserva naturale grande quanto lo Stato del Connecticut o lo Yellowstone e il Glacier National Park messi insieme. “L’ecosistema della prateria va preservato” sostiene Damien Austin, portavoce della non-profit la quale, rifiutandosi di fare i nomi dei vip donatori e di rendere pubblici i bilanci e le cifre offerte ai contadini per acquisire le terre, sta alimentando il venticello delle teorie complottiste. “C’è sempre chi vede il cambiamento come una minaccia… noi rappresentiamo il West evoluto del Terzo Millennio” ci dice Austin. Ma Vicki parla a nome di un mondo intrinsecamente legato alla cultura pionieristica americana, che rischia di essere spazzato via per consentire l’inserimento di diecimila bufali allo stato brado: “Noi siamo quelli che si prendono cura della terra, la gente di città è così distaccata dalla vita rurale che non si rende conto che se non ci sono mucche al pascolo e campi di grano non ci saranno più pane, latte, carne. La contea di Phillips produce cibo per due milioni e mezzo di persone ogni anno”.

 Falce e grilletto. Lo zoccolo duro degli allevatori ribelli sta nell’area di Zortman, una città fantasma dei tempi della corsa all’oro, appollaiata a 1400 metri sulle Little Rocky Mountains, già rifugio di Kid Curry, il più feroce membro della Wild Bunch, la banda di fuorilegge che terrorizzava il West a fine Ottocento, di cui facevano parte anche Butch Cassidy e Sundance Kid – c’è ancora la gattabuia con qualche foro di Colt. Si vede che nell’aria circola lo stesso spirito contadino ribelle. “Non venderò mai, per nessuna cifra al mondo. Mai” dice Ed Bibeau, allevatore di pecore, vitelli e manzi: “Ma qui la gente invecchia, i figli se ne vanno, questi ricconi hanno buon gioco a convincere molti proprietari a vendere. Ma poi non puoi più entrare al saloon, gli amici ti girano le spalle. Diventi un traditore. Comunque questa storia del Parco ha fatto lievitare il prezzo della terra, nessun giovane è più in grado di comprare un appezzamento e così la nostra cultura rischia di scomparire”.

George Brown è il cowboy della pompa di benzina, quello dell’alce di Three Forks; cappello nero e speroni, sguardo alla Lee Van Cleef, ha marchiato manzi tutto il giorno a cavallo, alla vecchia maniera: “Siamo in pochi ormai, tutti usano i quod, meno fatica. Ma anche meno poesia e silenzio” dice. “Quelli del Parco? Sono della stessa razza di quelli che hanno rinchiuso gli indiani nelle riserve e hanno ucciso i bisonti solo per sport. Ora vogliono cacciare i rancher e rimetterci i bisonti… I cowboy sono i nuovi pellerossa. Ma anche questa è l’America, sempre in movimento, sempre in viaggio”. Ecco forse George Brown ha interpretato il senso della spedizione di Lewis&Clark, gli uomini che fecero l’impresa: la Storia degli Stati Uniti è un susseguirsi di viaggi, i pionieri europei, gli schiavi dall’Africa, i neri del Sud che migrano nelle metropoli operaie, i cinesi in California, i sudamericani che si spostano al Norte… la Route 66, Mark Twain... Con il loro grande viaggio i nostri mitici battistrada sulla rotta del West hanno contribuito a forgiare questa identità in movimento. Se la Guerra Civile è stata l’Iliade americana, la Corps of Expedition è stata la loro Odissea.

5/5 The River Journal Project
testo di Marzio G. Mian e Nicola Scevola
Foto di Nanni Fontana e Massimo Di Nonno
Pubblicato su Sette del Corriere della Sera

1 commento:

Oliver Jones ha detto...


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