Chimamanda Ngozi Adichie è uno dei talenti
più promettenti della letteratura nigeriana e anglofona in generale. A 39 anni,
la scrittrice ha all’attivo due saggi e tre romanzi che hanno vinto diversi
premi, fra cui il Commonwealth Writers’ (Purple Hibiscus), e il National Book
Critics Award (Americannah), e sono apparsi nella lista dei migliori libri
selezionati dal New York Times. Forse più che per i suoi scritti, però, Adichie,
è conosciuta per il suo attivismo militante. “Narrare è sempre un gesto di attivismo”,
sottolinea l’autrice, nata in una cittadina universitaria della Nigeria
meridionale. “A suo modo, Proust era un attivista dell’amore”. La questione che
accende, invece, Adichie è la disparità di genere. Il suo saggio We Should all be feminists le ha dato
notorietà planetaria, al punto da essere distribuito in tutte le scuole
superiori svedesi, e da poco ha pubblicato un testo intitolato Manifesto
femminista in 15 suggerimenti.
A detta dell’autrice, il suo merito non è stato
aver espresso nuovi concetti anti sessisti. Piuttosto di averlo fatto in modo
semplice e accessibile, anche sfruttando medium di massa come video e canzoni,
che le hanno permesso di raggiungere un pubblico molto più ampio di quello che,
purtroppo, si ottiene attraverso i libri. Oltre a firmare due interventi su TED
Talk (visti complessivamente da 13 milioni di persone), Adichie ha prestato il
suo viso per la campagna pubblicitaria di una marca di make-up e ha collaborato
con due protagonisti dello star system mondiale: Beyoncé e Dior. La cantante le
ha chiesto di utilizzare alcune sue frasi sulle pari opportunità nella canzone Flawless, mentre la maison di moda ha
stampato il titolo We should all be
feminists su una t-shirt della collezione ready-to-wear di quest’anno.
“Alcune puriste mi hanno criticato perché
temevano una commercializzazione del femminismo”, dice Adichie. “Capisco la
critica, ma non la condivido: l’obiettivo del femminismo è creare giustizia nel
mondo. Per riuscirci il nostro messaggio deve necessariamente raggiungere più
gente possibile”.
L’idea di farne una maglietta da sfilata,
così come una canzone, non è stata di Adichie. Sono le stesse star ad averla
coinvolta, non prima di averla conquistata, dimostrandole la sincerità delle
loro intenzioni, che non era certo quella di sfruttare gli ideali femministi
per vendere più prodotti.
“Maria Grazia [Chiuri, ndr] mi ha scritto
a mano una lettera a molto sincera e toccante. Sono rimasta sorpresa quando ho
saputo che era la prima direttrice donna nella storia di Dior, mi è sembrato
molto simbolico. E poi quella che ha disegnato è proprio una bella maglietta”.
Adichie ha una voce sicura che lascia
deliberatamente trasparire una certa soddisfazione nel commentare un indumento
firmato.
“Ho sempre amato vestiti, tacchi alti,
rossetti. Quando ho cominciato a scrivere, però, nascondevo questo lato, perché
il mondo può essere molto intollerante nei confronti delle donne
intellettualmente impegnate. Mi sentivo costretta a vestire come una scrittrice
seria, non come piaceva a me. Ora che non ho più nulla da dimostrare, sono
felice di parlare della mia passione per lo stile: è un modo per affermare il
diritto ad avere una personalità sfaccettata”.
La battaglia per raggiungere la parità di
genere passa anche da piccoli gesti come questo, esercizi di autoconsapevolezza
che mirano a evitare le trappole degli stereotipi in cui anche persone come
Adichie, a volte, possono ricadere.
“Qualche giorno fa, parlando di un medico,
ho dato per scontato che fosse un uomo. Quando un’amica mi ha fatto notare che
era una donna, mi sono vergognata. Proprio io, colta a parlare così! Mi ha dato
la misura di quanto lavoro c’è ancora da fare”.
E dire che Adichie ha una certa
esperienza, sia per aver studiato e scritto abbondantemente in materia, sia per
aver provato sulla pelle visioni piuttosto lontane: quella nigeriana, dov’è
cresciuta; e quella americana, dove ha perfezionato gli studi negli atenei più
prestigiosi e oggi continua a vivere con il marito e la figlia nata da poco.
“In Nigeria la disparità di genere è più
esplicita, negli Stati Uniti più sottile. Non credo che una forma sia
necessariamente meglio dell’altra perché, nel secondo caso, spesso la misoginia
è comunque presente ma diventa solo più difficile da dimostrare. E la
situazione peggiora con l’età: mentre Nigeria gli anziani godono ancora di un
certo rispetto, in America la donna che invecchia sconta la somma di due
fattori negativi”.
Nonostante questo, Adichie resta
ottimista: la scrittrice è convinta che, tranne un manipolo di maschilisti
convinti, la maggior parte delle persone tenda a discriminare solo perché
condizionata dall’ambiente sessista in cui vive. Questo crea grandi margini di
miglioramento, se si lavora per aumentare la consapevolezza nelle donne come
negli uomini.
“Soprattutto in Africa, noto che
l’atteggiamento di molte donne sta cambiando. Questo significa progresso per
me. Sogno d’inventare una pillola rosa che renda tutti femministi all’istante”,
conclude ridendo. “Scherzi a parte, la complessità della sfida non è una buona
ragione per rinunciare, anzi. Bisogna affrontarla concentrandosi sui
miglioramenti incrementali, non sperando di cambiare il mondo dalla mattina
alla sera”.
Publicato su L'Officiel Italia
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