
Viaggio nella sede del socialnetwork che custodisce amicizie, segreti e vanità di mezzo miliardo di utenti.
Pubblicato su Io Donna:
Dall’esterno, l’archivio dei nostri ricordi sembra la sede di una polizia segreta. Il palazzo di cemento grigio ha muri spessi, finestre piccole e telecamere ad ogni angolo.
L’unica scritta che l’identifica come il quartier generale di Facebook è piccola e defilata. Per entrare è obbligatorio firmare un patto di riservatezza che copre qualsiasi informazione raccolta durante la visita. Stando al foglio, l’esistenza stessa dell’accordo deve rimanere segreta.
Una volta dentro, però, l’atmosfera ricorda quella del dormitorio universitario da cui Facebook è partito solo sei anni fa. C’è un monopattino a motore per terra e diverse biciclette appoggiate ai muri. Una lunga parete bianca coperta di scritte e scarabocchi. E un ragazzo con i capelli ossigenati che sta disegnando con pennarelli colorati una nuova frase. “Facebook fa schifo!*”, scrive ridendo insieme ad un collega. Poi aggiunge nell’angolo opposto della parete: “*Sto scherzando”. Da una stanza arrivano delle grida concitate: è in corso una sfida con i videogiochi. Al centro della grande sala, intanto, centinaia di persone si concentrano sui loro computer, sedute a scrivanie addossate le une alle altre.
Fra i 1400 dipendenti è difficile incontrarne uno coi capelli bianchi, e le t-shirt sono sicuramente più di moda delle giacche. D’altronde Mark Zuckerberg, il ventiseienne fondatore della compagnia oggi valutata circa 25 miliardi di dollari, non ha mai fatto segreto di preferire le ciabatte infradito alle scarpe coi lacci.
Appesi alle pareti colorate ci sono decine di disegni ispirati ad un quadro di Magritte di un uomo con la bombetta e una mela che gli nasconde il viso. E’ uno dei poster preferiti di Zuckerberg, che l’ha disseminato in ufficio come monito contro il pericolo di trasformarsi in uomini d’affari senza scrupoli.
Nel grande spazio comune non esistono uffici privati, ma solo sale riunioni con pareti trasparenti e nomi ispirati a gruppi musicali come Wham!, Inex e Mötley Crüe. O a film culto come Star Wars e Harry Potter.
“Facebook è basato sulla condivisione e questo si riflette anche nell’ambiente in cui lavoriamo”, spiega Elisabeth Lider, l’addetta stampa che ci guida nella visita.
Neanche Zuckerberg ha una stanza personale. Passa la maggior parte del suo tempo muovendosi fra una riunione e l’altra. Ogni volta che il sito sta per lanciare una nuova funzione, si mette in piedi in mezzo alla sala e suona un grande gong di metallo. E quando è impegnato a programmare, siede a una scrivania in mezzo alle altre, identica a quelle dei suoi colleghi: stessa sedia e stesso schermo a 28 pollici collegato ad un computer portatile.
Nonostante il clima rilassato, il rumore di centinaia di dita che battono sulle tastiere riempie l’ufficio con un ronzio costante. C’è un via vai di ragazzi con i portatili sottobraccio che si spostano da una scrivania all’altra o fra le sale riunioni.
A luglio il sito ha raggiunto i 500 milioni d’iscritti. Se, insieme al profilo sulla pagina internet, ad ogni utente fosse assegnata una cittadinanza virtuale, Facebook sarebbe la terza nazione più grande del mondo.
“C’è un entusiasmo particolare fra chi lavora, ti senti parte di qualcosa di rivoluzionario”, dice Naomi Gleit, responsabile 27enne della divisione Crescita e Sviluppo. “Il traguardo dei 500 milioni è stato importante”, aggiunge indicando i cartelli sparsi per l’ufficio. Sono apparsi il giorno in cui è stata raggiunta la fatidica soglia e invitano i dipendenti a ringraziare gli utenti con messaggi da pubblicare sul sito. “Ora però siamo già concentrati ad arrivare a un miliardo”.
Cinque anni fa Gleit è stata la prima donna assunta da Facebook, quando nella società erano solo 15 uomini e il sito contava un milione d’iscritti.
“I miei colleghi erano un branco di nerd ventenni e passavano le notti in ufficio a risolvere rebus informatici mangiando pizza e bevendo Red Bull”.
Ora la proporzione fra i sessi si è riequilibrata e l’età media si avvicina più ai 30 anni, ma l’entusiasmo per il lavoro sembra non essere cambiato.
Una parte dei soffitti è lasciata volutamente scoperta, con cavi e tubature che spuntano per enfatizzare il carattere di laboratorio della sede. A dare il benvenuto ai visitatori davanti all’ingresso c’è un lungo bancone che pare quello di un bar, ma ospita tecnici informatici pronti a risolvere i problemi delle apparecchiature dei dipendenti. E l’ufficio spesso resta animato anche nelle ore piccole: gli ingegneri hanno l’abitudine di organizzare hackathon notturni, riunioni informali per maghi informatici che si ritrovano per sviluppare nuove idee. I partecipanti non sono ricompensati dall’azienda per questi sforzi e nessuno ai vertici li spinge a farli.
“Basta la prospettiva di creare una funzione che potrebbe essere usata da mezzo miliardo di persone a motivarci”, sottolinea Gleit, che attualmente si sta occupando anche di un’altra questione delicata: i fantasmi degli utenti deceduti.
A volte il server di Facebook consiglia automaticamente ai suoi utenti di ricontattare un amico senza sapere che questo nel frattempo è mancato. Se nessuno avverte l’azienda del decesso, infatti, il profilo della persona rimane attivo. Gleit sta cercando una soluzione attraverso un software in grado di segnalare quando sul wall di un utente appaiono scritte come “riposa in pace” o “non ti scorderò”. In modo tale che Facebook possa verificare se l’utente è davvero deceduto.
La questione sta generando un’ondata di cattiva pubblicità. E’ solo un piccolo ostacolo per l’espansione di Facebook che serve, però, a evidenziare la natura precaria del business dei social network. Non offrendo ancora un servizio con un’utilità intrinseca, c’è chi è convinto che un errore di marketing o un cambio di moda possa bastare per rendere obsoleto il sito in pochi mesi.
“I miei genitori preferirebbero trovassi un lavoro più stabile”, ammette Gleit. “Non capiscono che non sarò soddisfatta fino a quando tutti non avranno Facebook nel mondo”.
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