venerdì 4 novembre 2011

Harry Benson, maestro di fotogiornalismo


Photo by Harry Benson

Pubblicato su Vogue: 
In oltre sessant’anni di carriera, Harry Benson ha seguito eventi di tutti i generi per la stampa di mezzo mondo: il fotografo di origini scozzesi era presente quando il muro di Berlino è stato eretto e quando è caduto, era con i Beatles in tournè, con i mujaheddin in Afghanistan, al fianco di Bob Kennedy quando è stato assassinato, e al Plaza di New York per il Black and White party di Truman Capote. Dovunque succedesse qualcosa d’interessante, lui compariva con una macchina fotografica al collo.
Manifestanti o celebrità, guerre o sfilate, Benson ha sempre accettato di coprire qualsiasi avvenimento, perché, come ripete spesso, “non si sa mai da dove possa nascere una buona storia”. 
Per essere più vicino all’occhio del ciclone, il fotografo si trasferì dalla natia Glasgow a Londra e poi a New York nella metà anni Sessanta. Capitò negli Stati Uniti quasi per caso, inseguendo i Beatles nella loro prima trasferta oltreoceano. Appena arrivato nella Grande Mela fu colpito dall’abbondanza di storie da raccontare, e decise di non tornare più indietro.
“E’ una città che non delude mai e sa sempre essere all’altezza delle aspettative”, dice il fotografo dal suo appartamento nell’Upper East Side. “Qui succede sempre qualcosa”, aggiunge accarezzando la sua amata Daisy, un vecchio carlino dal pelo mielato che non smette di fare grugniti da porcellino.
Dalla sua posizione privilegiata, per oltre mezzo secolo Benson ha documentato la scena sociale di Manhattan, ritraendo artisti, politici, stilisti e imprenditori e creando una cronistoria eccezionale delle personalità che hanno contribuito a rendere unica questa città.
“La vita mondana di New York è senza pari, e si può dire che non è cambiata di molto negli ultimi cinquant’anni”, sottolinea con una cadenza scozzese rimasta nonostante i tanti gli anni passati negli States.
Per averne un’idea basta sfogliare New York, New York, nuovo libro del fotografo di Glasgow pubblicato questo mese da PowerHouse. Con l’aiuto di Hilary Geary Ross, amica e fine conoscitrice del jet-set newyorkese, Benson ha spulciato i suoi archivi alla ricerca delle immagini scattate alle personalità più rappresentative che hanno contribuito a creare la fama della città.
“E’ una presentazione di New York attraverso i suoi protagonisti”, dice Geary Ross. “Quegli high achiever che hanno riscosso successo nei campi più disparati”. 
Contiene ritratti che vanno dalla nipote di Ernest Hemingway, Margaux (“Una ragazza dolcissima”, ricorda Benson) al sindaco Michael Bloomberg (“Lavoratore indefesso, mi ha dato appuntamento per fotografarlo alle sette del mattino”).
Guai però a definirlo un diario personale di Benson.
“Quello sarebbe fatto d’immagini molto più crude”, sottolinea il fotografo.
Non per niente, il suo scatto preferito fra quelli raccolti nel libro è quello d’apertura, che ritrae Robert Kennedy sulla Quinta Strada nel giorno in cui l’allora senatore annunciò la sua candidatura alla presidenza.
“Quel giorno Bobby cominciò il suo cammino verso la morte”, ricorda il fotografo. “Tre mesi dopo ci ritrovammo entrambi nella cucina di un albergo di Los Angeles, lui con un proiettile in testa, io a immortalare quella scena agghiacciante col mio obiettivo”.
Nonostante la grande ammirazione che provava per Kennedy, quel giorno d’estate del 1968 Benson riuscì a mantenere i nervi saldi. La pioggia di pallottole sparate da un fanatico di origini giordane aveva ferito altre cinque persone, oltre al candidato democratico. E nel panico che seguì, la polizia se la prese con tutti.
“Un agente mi assalì gridando e sferrando pugni all’impazzata. Ebbi giusto il tempo di nascondere un rullino nelle calze e di mettere davanti la camera per proteggermi. Il poliziotto colpì l’obiettivo e si tagliò una mano, e io andai avanti a fare il mio lavoro”.
Quella serie d’immagini fece il giro del mondo, contribuendo a consolidare la fama dell’inviato.
Benson era presente anche quando fu assassinato Martin Luther King, e ha documentato a lungo il movimento per i diritti civili negli Stati Uniti, così come la guerriglia nell’Irlanda del Nord e quella in Kosovo. Il fotografo, però, non ha mai voluto essere legato ai suoi reportage più seri ed è contento di essere identificato più per foto come quella dei Beatles che fanno la guerra con i cuscini in una camera d’albergo di Parigi.
“La vita è fatta anche di cose allegre, e preferisco non essere ricordato come ambasciatore di pene. E poi è grazie alla foto dei Beatles che ho scoperto New York”.
Ai tempi, il giornale inglese per cui lavorava gli chiese di seguire la tournè francese della band di Liverpool. Era il 1964 e la Beatles-mania era ancora agli albori. Benson aveva sentito parlare del gruppo, ma non era entusiasta dell’incarico. 
“Avevo già in programma di partire per l’Africa per coprire il primo anniversario dell’indipendenza di uno stato, quando il mio capo mi dirottò bruscamente su quest’altra storia. Dopo aver sentito la prima canzone del concerto, però, capì di aver scelto un cavallo vincente”. 
Benson riuscì a conquistare rapidamente la fiducia dei Fab Four e, quando questi accennarono a una guerra di cuscini accaduta qualche sera prima, gli propose di ripetere la scena davanti al suo obiettivo.
“Quelle foto furono un successo immediato e il giornale mi pagò un biglietto per seguire il gruppo anche a New York”. 
Una volta sbarcato nella Grande Mela, il fotografo impiegò poco per guadagnare accesso ai migliori salotti. Cominciò a ritrarre attori, capitani d’industria, collezionisti d’arte e filantropi d’ogni genere. E due anni dopo, quando Truman Capote organizzò al Plaza Hotel una festa passata agli annali della storia della mondanità, Benson era in prima fila a fotografare l’esclusiva lista d’invitati. Tanto che, se gli si chiede se si sia mai sentito un paparazzo, non si scompone.
“Ho fotografato di tutto in vita e le etichette non mi spaventano. Cambio soggetto come si cambia canale sulla televisione. E poi credo che i paparazzi facciano un buon lavoro: spesso sono quelli che scattano le foto più vive”.
Una delle maggiori qualità di Benson è la sua capacità di conquistare nel giro di breve la fiducia dei soggetti che ritrae.
“E’ molto affascinante, un grande affabulatore”, racconta la curatrice del libro Geary Ross dopo averlo visto all’opera. “Spesso quando scatta parla, canta e intrattiene i suoi soggetti per conquistarli e farli rilassare”.
Questo gli permette di cogliere i lati più intimi della gente, senza però avvicinarsi in maniera compromettente.
Certo, qualche eccezione c’è stata. Ma non con le celebrità. La politica è sempre stata la sua materia preferita.
“Ho fotografato tutti i presidenti da Eisenhower a Obama”, fa notare orgoglioso.
Richard Nixon e il suo ministro degli Esteri Henry Kissinger sono gli unici a cui si è affezionato. “Erano ancora i tempi della guerra fredda e la politica mi prendeva molto”.
Davanti a fama e ricchezza, invece, Benson è rimasto sempre piuttosto neutrale. E, nonostante le frequentazioni importanti, non ha mai cercato di entrare a far parte del mondo che ha immortalato per oltre sessant’anni.
“Ho sempre evitato di diventare amico delle persone che fotografo”, conclude il fotografo. “Preferisco mantenere una certa distanza per essere libero di fare meglio il mio lavoro”.

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