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Photo by Harry Benson |
Pubblicato su Vogue:
In oltre sessant’anni di carriera, Harry
Benson ha seguito eventi di tutti i generi per la stampa di mezzo mondo: il
fotografo di origini scozzesi era presente quando il muro di Berlino è stato
eretto e quando è caduto, era con i Beatles in tournè, con i mujaheddin in
Afghanistan, al fianco di Bob Kennedy quando è stato assassinato, e al Plaza di
New York per il Black and White party di Truman Capote. Dovunque succedesse
qualcosa d’interessante, lui compariva con una macchina fotografica al collo.
Manifestanti o celebrità, guerre o sfilate, Benson ha sempre accettato di coprire qualsiasi avvenimento, perché, come ripete spesso, “non si sa mai da dove possa nascere una buona storia”.
Manifestanti o celebrità, guerre o sfilate, Benson ha sempre accettato di coprire qualsiasi avvenimento, perché, come ripete spesso, “non si sa mai da dove possa nascere una buona storia”.
Per essere più vicino all’occhio del
ciclone, il fotografo si trasferì dalla natia Glasgow a Londra e poi a New York
nella metà anni Sessanta. Capitò negli Stati Uniti quasi per caso, inseguendo i
Beatles nella loro prima trasferta oltreoceano. Appena arrivato nella Grande
Mela fu colpito dall’abbondanza di storie da raccontare, e decise di non
tornare più indietro.
“E’ una città che non delude mai e sa
sempre essere all’altezza delle aspettative”, dice il fotografo dal suo
appartamento nell’Upper East Side. “Qui succede sempre qualcosa”, aggiunge
accarezzando la sua amata Daisy, un vecchio carlino dal pelo mielato che non
smette di fare grugniti da porcellino.
Dalla sua posizione privilegiata, per
oltre mezzo secolo Benson ha documentato la scena sociale di Manhattan,
ritraendo artisti, politici, stilisti e imprenditori e creando una cronistoria
eccezionale delle personalità che hanno contribuito a rendere unica questa
città.
“La vita mondana di New York è senza pari,
e si può dire che non è cambiata di molto negli ultimi cinquant’anni”,
sottolinea con una cadenza scozzese rimasta nonostante i tanti gli anni passati
negli States.
Per averne un’idea basta sfogliare New York, New York, nuovo libro del
fotografo di Glasgow pubblicato questo mese da PowerHouse. Con l’aiuto di
Hilary Geary Ross, amica e fine conoscitrice del jet-set newyorkese, Benson ha
spulciato i suoi archivi alla ricerca delle immagini scattate alle personalità
più rappresentative che hanno contribuito a creare la fama della città.
“E’ una presentazione di New York
attraverso i suoi protagonisti”, dice Geary Ross. “Quegli high achiever che hanno riscosso successo nei campi più
disparati”.
Contiene ritratti che vanno dalla nipote
di Ernest Hemingway, Margaux (“Una ragazza dolcissima”, ricorda Benson) al
sindaco Michael Bloomberg (“Lavoratore indefesso, mi ha dato appuntamento per
fotografarlo alle sette del mattino”).
Guai però a definirlo un diario personale
di Benson.
“Quello sarebbe fatto d’immagini molto più
crude”, sottolinea il fotografo.
Non per niente, il suo scatto preferito
fra quelli raccolti nel libro è quello d’apertura, che ritrae Robert Kennedy
sulla Quinta Strada nel giorno in cui l’allora senatore annunciò la sua
candidatura alla presidenza.
“Quel giorno Bobby cominciò il suo cammino
verso la morte”, ricorda il fotografo. “Tre mesi dopo ci ritrovammo entrambi
nella cucina di un albergo di Los Angeles, lui con un proiettile in testa, io a
immortalare quella scena agghiacciante col mio obiettivo”.
Nonostante la grande ammirazione che
provava per Kennedy, quel giorno d’estate del 1968 Benson riuscì a mantenere i
nervi saldi. La pioggia di pallottole sparate da un fanatico di origini
giordane aveva ferito altre cinque persone, oltre al candidato democratico. E
nel panico che seguì, la polizia se la prese con tutti.
“Un agente mi assalì gridando e sferrando
pugni all’impazzata. Ebbi giusto il tempo di nascondere un rullino nelle calze
e di mettere davanti la camera per proteggermi. Il poliziotto colpì l’obiettivo
e si tagliò una mano, e io andai avanti a fare il mio lavoro”.
Quella serie d’immagini fece il giro del
mondo, contribuendo a consolidare la fama dell’inviato.
Benson era presente anche quando fu
assassinato Martin Luther King, e ha documentato a lungo il movimento per i
diritti civili negli Stati Uniti, così come la guerriglia nell’Irlanda del Nord
e quella in Kosovo. Il fotografo, però, non ha mai voluto essere legato ai suoi
reportage più seri ed è contento di essere identificato più per foto come
quella dei Beatles che fanno la guerra con i cuscini in una camera d’albergo di
Parigi.
“La vita è fatta anche di cose allegre, e
preferisco non essere ricordato come ambasciatore di pene. E poi è grazie alla
foto dei Beatles che ho scoperto New York”.
Ai tempi, il giornale inglese per cui
lavorava gli chiese di seguire la tournè francese della band di Liverpool. Era
il 1964 e la Beatles-mania era ancora agli albori. Benson aveva sentito parlare
del gruppo, ma non era entusiasta dell’incarico.
“Avevo già in programma di partire per
l’Africa per coprire il primo anniversario dell’indipendenza di uno stato,
quando il mio capo mi dirottò bruscamente su quest’altra storia. Dopo aver
sentito la prima canzone del concerto, però, capì di aver scelto un cavallo
vincente”.
Benson riuscì a conquistare rapidamente la
fiducia dei Fab Four e, quando questi accennarono a una guerra di cuscini
accaduta qualche sera prima, gli propose di ripetere la scena davanti al suo
obiettivo.
“Quelle foto furono un successo immediato
e il giornale mi pagò un biglietto per seguire il gruppo anche a New
York”.
Una volta sbarcato nella Grande Mela, il
fotografo impiegò poco per guadagnare accesso ai migliori salotti. Cominciò a
ritrarre attori, capitani d’industria, collezionisti d’arte e filantropi d’ogni
genere. E due anni dopo, quando Truman Capote organizzò al Plaza Hotel una
festa passata agli annali della storia della mondanità, Benson era in prima
fila a fotografare l’esclusiva lista d’invitati. Tanto che, se gli si chiede se
si sia mai sentito un paparazzo, non si scompone.
“Ho fotografato di tutto in vita e le
etichette non mi spaventano. Cambio soggetto come si cambia canale sulla
televisione. E poi credo che i paparazzi facciano un buon lavoro: spesso sono
quelli che scattano le foto più vive”.
Una delle maggiori qualità di Benson è la
sua capacità di conquistare nel giro di breve la fiducia dei soggetti che
ritrae.
“E’ molto affascinante, un grande
affabulatore”, racconta la curatrice del libro Geary Ross dopo averlo visto
all’opera. “Spesso quando scatta parla, canta e intrattiene i suoi soggetti per
conquistarli e farli rilassare”.
Questo gli permette di cogliere i lati più
intimi della gente, senza però avvicinarsi in maniera compromettente.
Certo, qualche eccezione c’è stata. Ma non
con le celebrità. La politica è sempre stata la sua materia preferita.
“Ho fotografato tutti i presidenti da
Eisenhower a Obama”, fa notare orgoglioso.
Richard Nixon e il suo ministro degli
Esteri Henry Kissinger sono gli unici a cui si è affezionato. “Erano ancora i
tempi della guerra fredda e la politica mi prendeva molto”.
Davanti a fama e ricchezza, invece, Benson
è rimasto sempre piuttosto neutrale. E, nonostante le frequentazioni
importanti, non ha mai cercato di entrare a far parte del mondo che ha
immortalato per oltre sessant’anni.
“Ho sempre evitato di diventare amico delle
persone che fotografo”, conclude il fotografo. “Preferisco mantenere una certa
distanza per essere libero di fare meglio il mio lavoro”.
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