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Cecily Brown, photo by Jurgen Frank |
"La maternità ha reso la mia pittura più sensuale", dice la pittrice inglese Cecily Brown. Che arriva con una mostra a Roma. E ci dà una lezione sull'Italia. Partendo da Sant'Antonio.
Pubblicato su Io Donna:
Quando Cecily Brown sbarcò a New York agli inizi degli
anni Novanta, nessuno sembrava più credere nella pittura contemporanea. Tutti
gli occhi in Inghilterra erano puntati sulle installazioni dei British Young
Artists, il movimento di cui faceva parte gente come Damien Hirst e Tracey
Amin. Con una pittura che ricordava l’espressionismo astratto di De Kooning,
Brown non aveva nulla a che spartire con i lavori concettuali dei suoi colleghi
e decise di cambiare aria.
Inizialmente nella Grande Mela la pittrice inglese
si arrabattò con lavoretti d’ogni genere pur di continuare a dipingere le sue
grandi tele, in cui figure e astrazioni si fondono in un caos denso di colori.
Poi incontrò un famoso gallerista a una mostra dell’artista americano Jasper
Johns. E lo incuriosì a tal punto da convincerlo a organizzarle la sua prima
esposizione personale.
Cosa disse a Jeffrey
Deitch per attirare la sua attenzione?
“Gli spiegai cosa mi trasmetteva il lavoro di Johns,
convincendolo della bellezza di alcune opere che lo avevano sempre lasciato
indifferente”, ricorda l’artista quarantaduenne, seduta a una scrivania del suo
atelier a un passo dalla Quinta Strada. “Jeffrey apprezzò la mia sensibilità e
mi disse che voleva vedere il mio lavoro”.
Dopo la mostra nella galleria di Deitch, il talento di
Brown trovò riconoscimento e la sua carriera prese il volo, trasformandola in
pochi anni in una delle pittrici contemporanee più quotate del mondo, con
quadri venduti per cifre a cinque zeri e opere esposte alla Tate Modern e al
Guggenheim. Nonostante questo, Brown ha conservato l’aria scanzonata e i modi
affabili dell’artista emergente. Porta una maglietta slabbrata, jeans e scarpe
da ginnastica. E non ha paura di definire “malato” quello stesso mercato che le
ha dato fama e ricchezza.
“Detto da una che vive vendendo i suoi quadri può
sembrare una contraddizione, ma è avvilente quando i collezionisti comprano
opere per speculazione, invece che per amore dell’arte. E’ triste pensare che
un quadro resti chiuso in un deposito in attesa di essere rivenduto alla prima
occasione. In questo senso, l’arrivo della crisi economica ha aiutato a
ridimensionare un circo ormai impazzito”.
Fra pochi giorni
inaugurerà la sua prima mostra italiana. Da dove nasce l’ispirazione per la
serie esposta?
“Dalla parabola di Sant’Antonio. Come sempre, i quadri si
sono poi allontanati dall’idea iniziale, ma questa rimane la radice. Quando
comincio un lavoro, non ho mai idea di come andrà a finire. E’ un po’ come se
inseguissi qualcosa senza sapere esattamente cosa sia”.
Lei è religiosa?
“No, affatto. Ma trovo affascinante la storia del santo
che resiste le tentazioni terrene e mi pare piuttosto rilevante per la
situazione italiana attuale”.
Le sue tele più famose
esprimono una notevole tensione erotica, tanto che i critici le attribuiscono
di aver restituito alla pittura una certa sensualità. E così anche per le opere
più recenti?
“Un tempo i miei quadri contenevano un erotismo più
esplicito, mentre oggi è più sottile, mentale. Ho sempre oscillato fra figure e
astrazione ma la pittura in sé è diventata più sensuale, mentre il soggetto lo
è meno”.
Ha una figlia di due
anni. Che impatto ha avuto la maternità sul suo lavoro?
“Da un lato è frustrante perché posso dedicare meno tempo
al mio lavoro. Dall’altro credo che la maternità mi abbia spinto a creare
soggetti più figurativi nei miei quadri. Avere una figlia mi ha riportato a
contatto con gli aspetti fisici del mondo, ogni cosa è diventata più tattile,
presente”.
Dalle pareti del suo
studio pendono una decina di grandi quadri su cui sta lavorando. Perché alcuni
sono girati contro la parete?
“Spesso ho bisogno di nascondere le tele per un periodo
per poter tornare a guardarle con obiettività. La parte più difficile del mio
lavoro sta nel capire quando un lavoro è davvero terminato. C’è sempre il
rischio di dipingere troppo e rovinare tutto”.
Ha studiato a Londra,
dove aveva ottime entrature anche grazie a suo padre, David Sylvester, uno dei
più famosi critici d’arte inglesi del Novecento. Cosa l’ha spinta a trasferirsi
a New York?
“La pittura non sembrava interessare a nessuno e vivere a
New York da povera era più facile che farlo a Londra. Inoltre la geografia di
Manhattan mi è sempre piaciuta. Londra è più dispersiva, qui invece l’energia è
più concentrata. E poi il mondo dell’arte è più vario ed aperto. E mio padre
non era così conosciuto da queste parti…”.
La sua famiglia ha una
storia complicata: è cresciuta credendo di essere figlia del marito di sua
madre ma a 21 anni le è stato detto che un amico di famiglia che vedeva ogni
tanto era in realtà suo padre biologico. Come ha reagito alla notizia?
“Non è stato facile, ma alla fine sono molto contenta di
aver avuto la possibilità di passare del tempo anche con il mio vero padre. Ho
potuto godere della sua compagnia per dieci anni prima della sua morte.
Parlavamo per ore di arte. E’ una fortuna che fosse uno scrittore: oggi posso
ancora ascoltare la sua voce attraverso i suoi libri”.
A mai saputo perché le è
stata svelata la verità?
“Quando decisi di fare l’artista cominciammo a
frequentarci più spesso. Forse i miei genitori temevano che qualcuno potesse
indovinare il segreto e dirmi qualcosa. Allora non mi passava neanche per la
testa, ma ora mi pare davvero evidente: David ed io ci assomigliavamo
moltissimo”.
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