![]() |
Ottavio Missoni |
![]() |
Nino Cerruti |
Non avendo le doti fisiche del collega, Cerruti si è limitato a praticare sport a livello amatoriale. Ma ha avuto il merito di essere il primo ad associare una griffe di moda con campioni del calibro del tennista americano Jimmy Connors e dello sciatore svedese Ingemar Stenmark. I due designer non si occupano più direttamente di moda: Missoni aiuta solo saltuariamente la moglie Rosita, che si dedica all’arredamento d’interni. Cerruti, classe 1930 e di pochi anni più giovane del collega, ha messo da parte le passerelle per concentrarsi sul lanificio di famiglia e su una joint venture nell’ambito del design creata con Baleri. Ma come fa notare, “essere stilista è come essere prete: una volta cominciato, non smetti mai completamente”. Entrambi hanno quindi l’esperienza e il distacco per dare un giudizio spassionato sulla moda maschile attuale.
Cerruti rimprovera all’industria di oggi
di essere troppo condizionata dalle logiche d’impresa, che spesso sono in
conflitto con quelle creative.
“A volte succede che l’ufficio stilistico
scelga dei tessuti”, dice il designer che negli anni Sessanta fu fra i primi a
riconoscere il talento di Giorgio Armani assumendolo nel lanificio di famiglia.
“Che vengono poi cambiati da quello di merchandising per mere ragioni di costi.
L’obiettivo della profittabilità è esasperato e limita la libertà creativa”.
L’imprenditore piemontese fu fra i primi a creare il pret-à-porter maschile, portando l’eleganza sartoriale su scala
industriale, ed è ben consapevole delle dimensioni colossali raggiunte oggi dal
business della haute couture,
“diventata insieme al calcio fra i veicoli comunicativi più potenti al
mondo”.
In questo contesto, è naturale che
l’atteggiamento dei protagonisti del settore sia cambiato.
“Si prendono molto sul serio, ma forse è
legittimo. L’industria è diventata talmente importante che cambiano le
responsabilità”, sottolinea il creatore dello stile detto casual chic. “Sembra quasi che i salvatori delle sorti economiche
dell’Italia debbano essere gli imprenditori della moda”.
Cerruti punta, però, il dito sulla
frattura che si è creata fra le sfilate “ad alto scopo promozionale” e il
prodotto venduto al consumatore finale.
“In passerella si tende ad esagerare per
scioccare la gente, mentre le logiche economiche condizionano la produzione al
punto da rischiare di trasformare le maison
in catene retail”.
Quando chiediamo la sua opinione sulla
moda attuale, anche Missoni non risparmia qualche critica, espressa con
l’ironia e il sarcasmo che da sempre lo distinguono.
“Oggi per vestire con cattivo gusto non è
necessario seguire la moda, ma aiuta”, scherza al telefono con una voce arzilla
nonostante la venerabile età, ripetendo una battuta divenuta ormai un suo
motto. “Spesso la gente che segue pedissequamente le ultime tendenze combina
dei disastri. Mescolare i suggerimenti con un tocco di stile personale è
fondamentale”.
D’altronde, rompere le regole ha sempre
portato fortuna allo stilista di origini dalmate.
Negli anni Sessanta, i primi successi
della maglieria fondata con la moglie Rosita arrivarono quando cominciò a
sperimentare la lavorazione di vestiti leggeri con macchine da cucire pensate
per la confezione di scialli. Una decina d’anni dopo, quando già il nome del
maestro dei colori cominciava a circolare a livello internazionale, fece
sfilare a Palazzo Pitti modelle con vestiti leggermente trasparenti senza sotto
il reggiseno. La polemica che seguì, gli procurò una scomunica da Firenze,
forzandolo ad andare a Milano e a fondare insieme ad un manipolo di giovani
stilisti il movimento che ha poi trasformato la città meneghina nella capitale
della moda italiana.
“Il vantaggio di non aver mai frequentato
una scuola è che sono sempre stato libero di pensare fuori dalle regole”,
sottolinea l’anziano fondatore della maison lombarda.
Certo, Missoni ammette che il mondo in cui
si muoveva un tempo è diverso da quello attuale. C’erano meno concorrenti ma le
opportunità erano minori. E forse proprio questo l’ha aiutato a restare con i
piedi per terra. Nonostante il suo marchio sia da anni uno dei principali
ambasciatori mondiali del Made in Italy
con fatturati milionari, Missoni sostiene di non aver mai spinto per realizzare
grandi numeri.
“Non mi ha mai interessato. L’azienda ha
mantenuto una qualità costante e un carattere artigianale”.
Anche Cerruti dice di aver sempre
interpretato il lavoro nella moda non solo come business, ma soprattutto come
un modo per coltivare le proprie passioni.
“Negli anni Settanta ho cominciato ad
avvicinarmi al mondo del cinema perché mi piaceva, disegnando vestiti per
attori francesi e per Hollywood. Poi sono passato allo sport per la stessa
ragione e quando ho cominciato a sponsorizzare il calcio, mi presero per matto.
Dicevano che era un gioco del sudore e non sarebbe mai stato una buona
promozione. Il tempo mi ha dato ragione”.
Pur restando giustamente fieri di ciò che
hanno creato, però, entrambi gli stilisti scherzano volentieri sull’unicità e
l’importanza del loro lavoro.
“Serve a trascinare il comparto tessile e
come veicolo dell’immagine italiana, ma non è mai stata una grande invenzione”,
conclude Missoni ridendo. “Sulle Ande sono duemila anni che copiano i miei
modelli e in Egitto sono anche più di tremila”.
Nessun commento:
Posta un commento