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Photo by Jean-Baptiste Mondino |
Intervista all'artista serba alla vigilia dell'apertura della sua prima performance dopo la retrospettiva del Moma di New York
A giudicare dalle performance che l’hanno
resa celebre in tutto il mondo, Marina Abramović può sembrare una persona ascetica e
seriosa. Nel 1997 ha vinto un Leone d’Oro alla Biennale di Venezia pulendo un
cumulo d’ossa di animali, simbolo delle atrocità delle guerre avvenute nella sua
nativa Iugoslavia; nel 2002 si è rinchiusa per 12 giorni nella teca di una galleria
senza mangiare. E nel 2010 è rimasta immobile per più di 700 ore a fissare
negli occhi il pubblico del Moma di New York. Quando la s’incontra di persona,
però, appare subito chiaro che dietro questi lavori estremi si nasconde una
donna solare che ha voglia di ridere e scherzare, adora la moda e l’arredamento
di design. Fino a qualche tempo fa, Abramović tendeva a nascondere questi lati del suo carattere per paura di compromettere
il suo ruolo di artista impegnata. Oggi, invece, sa di non aver più bisogno di
dimostrare nulla e si sente libera di esporre anche i suoi lati più umani.
“Recentemente sono apparsa sulla copertina
dell’edizione serba di Elle e su
quella di Harper Bazaar e mi sono
divertita tantissimo”, confida Abramović con un sorriso. “Finalmente posso
ammettere apertamente quanto mi piace la moda, soprattutto quella disegnata dal
mio amico Riccardo Tisci [stilista di Givenchy, ndr]”.
I critici la definiscono una delle artiste più importanti del tardo
Novecento e le nuove generazioni la considerano un punto di riferimento, tanto
da soprannominarla “Nonna della Performing Art”.
“Il soprannome tende a sottolineare il mio
impegno per dare legittimazione a questo genere artistico, che solo negli
ultimi anni ha cominciato a trovare riconoscimento. Detto sinceramente, però,
non mi piace: ho 65 anni, ancora tanto da dire e nessuna intenzione di andare
in pensione”.
A marzo inaugurerà a Milano la prima performance dopo il grande successo di
quella tenuta al Moma. Di cosa si tratta?
“Saranno due esposizioni collegate, in una
galleria privata e al Padiglione d’Arte Contemporanea: nello spazio di Lia Rumma
racconterò i miei stati d’animo più profondi, mentre al Pac metterò in mostra
gli stati d’animo dei partecipanti. Ogni giorno selezionerò due gruppi di
persone dal pubblico e insegnerò loro alcune tecniche di meditazione che poi
dovranno applicare davanti ai visitatori”.
In seguito alla mostra al Moma la sua fama è cresciuta in modo esponenziale.
Che impatto ha avuto sulla sua vita?
“Fossi stata più giovane, probabilmente il
successo mi avrebbe dato alla testa. Ma dopo tanti anni di duro lavoro, lo vivo
come una ricompensa. A New York [città dove vive, ndr] capita che la gente mi fermi per abbracciarmi e ringraziarmi.
L’effetto delle performance sul pubblico stupisce anche me, ma dimostra che la
mia arte non ha solo un valore commerciale”.
So che sta per lasciare il loft di SoHo dove vive da anni.
“Sì, volevo una casa più tradizionale e ho
comprato una townhouse [tipiche villette di New York, ndr] a quattro piani da
dividere con Tisci. Ho arredato i miei due piani in stile minimalista, con
pezzi firmati da Ron Arad [designer israeliano, ndr]”.
Il suo appartamento non è l’unico progetto architettonico di cui si sta
occupando.
“Ho comprato anche un vecchio teatro a un
paio d’ore di macchina da New York, dove sto costruendo un Istituto per lo
sviluppo della Performing Art. Sarà un centro aperto a giovani artisti e
dedicato alle Performance di lunga durata. E’ un progetto ambizioso, ma sono
ottimista. A questo proposito, posso finire raccontando un episodio buffo.
Prego.
Per seguire il progetto dell’istituto, due
anni fa ho dovuto prendere la patente. Conoscendomi, però, ho preferito
prenotare le lezioni con un istruttore per disabili. Quando mi sono presentata,
l’istruttore mi ha domandato cosa avevo che non andava. E io gli ho risposto:
tutto, anche se non si vede”.
Pubblicato su Tu Style
La mostra "The Abramovic Method" sarà al PAC di Milano dal 21 Marzo al 10 Giugno
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