Seconda tappa del viaggio lungo il Po, in un paradiso naturale dove eccellono 30 aziende che producono ruote panoramiche e montagne russe e dove si alleva un mollusco che ha appena ricevuto il prestigioso marchio dall'Unione Europea
“E’ che se in Italia non hai il vino non sei
nessuno”, dice Maurizio Barotto vogando controcorrente con il suo “batel del
Po”. Si sta parlando del Polesine, quest’isola incastonata tra l’Adige, il Po e
l’Adriatico, che non capiamo, dopo giorni di esplorazioni, perché non abbia
ancora conosciuto la classica riscoperta, il famoso “re-branding” che ti fa
diventare di moda. Prima o poi anche l’angolo più remoto, la valle più sperduta
e fuori dai circuiti hanno il loro momento di riscatto; arriva il New York
Times che indica la “nuova Toscana” di turno, il marketing parte in quarta
e sei subito nel giro. “Manchiamo solo noi, toh forse il Molise… Ma per avviare
la pratica, uscire dall’isolamento e diventare doc, oggi devi almeno avere un
vino potabile. Invece siamo ancora quelli dell’alluvione, il Mezzogiorno del
Nord”. Anche il cinema di solito funziona bene, ma il Polesine, come il Grande
Fiume che l’ha creato a propria immagine e somiglianza e come Maurizio col suo
batel fatto a mano, anche lì non ha seguito la corrente comoda della modernità
e le commediole tipo “Basilicata Coast to Coast”.
Dal fucile al binocolo
Eppure qui accadono molte cose. “Il pensiero lungo,
alla lunga produce risultati stupefacenti”, assicura Leonardo Bollacasa della
locanda del Nibbio a Porto Levante. Si definisce un “pioniere”. Era arrivato da
Padova per gestire l’alloggio, una delle basi per il turismo naturalistico nel
Delta settentrionale. “Poi ho scoperto che le valli in realtà sono luoghi
chiusi, proibiti. Sono destinate all’allevamento di pesci e crostacei, oppure
all’attività venatoria, dove i ricchi affittano riserve per la caccia in botte
anche a 200 mila euro per quattro mesi di stagione”. Ma ha conosciuto i cugini
Morassutti, figli dei proprietari della locanda e soprattutto della valle
Bagliona, 600 ettari un tempo adibiti all’allevamento di anguille, orate,
branzini gamberoni, e alla caccia. Hanno capito, anche con l’aiuto di Leonardo,
che non ne valeva più la pena, la gestione dell’itticoltura era sempre più
difficile, anche a causa dell’invasione incontrollabile dei cormorani che
mangiano pesce quattro volte il loro peso. Così hanno deciso di aprire la
valle, sostituire i cacciatori con lo schioppo con quelli armati di binocolo. E
hanno aperto la Bagliona ai turisti di Leonardo. “Abbiamo rivelato al mondo
forse il luogo più prezioso del Delta”. Oggi si può prendere una bici e
immergersi in quello che Leonardo chiama “l’aeroporto internazionale degli
uccelli”. Un hub per oltre 150 specie migratorie.
Nel tramonto oltre i canneti si vedono le
silhouette dei fenicotteri rosa, immobili come bramini in preghiera, e dalle
tamerici della barena si alzano in volo chiurli e pittime reali; più avanti,
tra i ginepri, le robinie e il giunco nero s’intravedono sgarze, avocette,
aironi rossi e cinerini. Si capisce perché era un posto prediletto da Ernest
Hemingway, il cacciatore più assatanato dell’Occidente, uno che ha fatto più
stragi di animali del cambiamento climatico: qui veniva a sparare anche con la
spingarda lunga cinque metri, un “archibuson” che appoggiava alla barca o sulla
spalla di un aiutante ed era in grado di colpire, con una rosa di pallini larga
fino a una decina di metri, un intero stormo di germani, alzavole, fischioni o
marzaiole. Un paesaggio antico in un terreno recentissimo, il risultato
spettacolare dell’immane lotta tra il mare, il fiume, la terra, l’uomo. “Sai -
dice Leonardo - che qui ora siamo più sicuri del resto del Veneto? Quello che è
successo nel ‘51 ha insegnato la lezione e ora quando escono il Brenta, l’Adige
o il Bacchiglione qui è tutto tranquillo; grazie a idrovore e ai nuovi argini,
il Po non fa più tanta paura. E pensare che siamo sotto il livello del mare
anche sette metri…”.
Cattedrali illuministe
Il paesaggio del devoto Polesine - un esempio per
tutti il santuario della Madonna del Pilastrello a Lendinara con i suoi sublimi
ex voto - è segnato da strani campanili laici: sono le ciminiere delle vecchie
idrovore, cattedrali illuministe come quella di Amolara all’altezza di Adria
sul Canal Bianco, il corso artificiale che collega l’Adige al Po e scorre
nell’antico letto del Tartaro e fa parte della rete navigabile del Grande
Fiume. Amolara, costruita nel 1848, marciava a vapore e aspirava fino a 4000
litri al secondo. Ha funzionato a diesel fino al 1992 e oggi ospita il Museo
dei Sette Mari, dedicato all’opera di bonifica del Novecento. “Ora d’idrovore
ne bastano meno, circa una ogni venti chilometri” dice Paolo Bordin che
gestisce museo e ostello, base soprattutto per i ciclonaturalisti diretti al
Delta. “Gli interventi non si fanno più sui canali secondari, ma su quelli
principali, tramite le chiuse. Le paratie vengono controllate con i terminali a
distanza”. Ma la madre di tutte le idrovore, una delizia per gli archeologi
industriali è quella di Ca’ Vendramin che con la sua ciminiera di 60 metri
domina le risaie dell’isola di Ariano. Agli inizi del Novecento era la più
potente d’Europa, pompava fino a 11 mila litri al secondo. Il soffitto della
sala macchine, decorato addirittura a cassettoni in ceramica, ricorda
l’architettura industriale liberty americana: ce lo fa notare Joseph Sabatino,
giovane artista del New Jersey che è stato invitato da DeltArte e dalla
Fondazione Cariparo nell’ambito di un Festival internazionale quest’anno
dedicato alla memoria nascosta del Delta Po. “Tutto si tiene, è incredibile”
dice Joseph. “Mio padre ha lavorato tutta la vita in una struttura quasi uguale
a questa nel New Jersey, e le mie installazioni si richiamano al movimento
lineare dei fiumi… Mi sono trovato nel mio elemento emotivo, il Polesine è un
luogo metafisico e metageografico che ti riporta a un pensiero essenziale,
quasi infantile…”.
Sulla statale 47 che costeggia il Po sulla riva
sinistra a Ovest di Rovigo, all’altezza di Bergantino, sembra invece di
fiancheggiare il Mississippi nel basso Illinois. Pomeriggio di temporali,
camion e pick-up che procedono malinconici come un tergicristallo. Il motel
Gardenia, collocato quasi a caso a ridosso dell’argine, è protetto da un
gigantesco Cristo con le braccia aperte e un inquietante buco in fronte; le
luminarie di Natale e la scritta Buone Feste sembrano voler confondere anche
chi sa riconoscere e accettare il sempre uguale delle province del mondo.
Infatti Bergantino è un luogo con un potente senso del kitsch. Siamo nella
capitale dei Luna Park.
Le donne di Bergantino
Con l’indotto, il distretto delle giostre del
Polesine, fa girare oltre 250 milioni di euro l’anno. Un mercato quasi
esclusivamente estero, soprattutto nei paesi emergenti. “Tutto è cominciato
negli anni Trenta”, dice Gianluca Fabbri, titolare dell’omonima ditta. “Nel
dopoguerra costruivamo giostre con i pezzi di carri armati. Oggi siamo presenti
in tutto il mondo”. Negli anni Ottanta in un paese di tremila anime c’erano un
centinaio di famiglie di giostrai - o “bergantini” come si definiscono per
evitare commistioni con certi ambienti tipo mala del Brenta - ora le imprese
che producono autoscontri e montagne russe, sono una trentina, ma alcune come
la Fabbri o la Zampello sono dei colossi con commesse milionarie, soprattutto
per le ruote panoramiche che raggiungono anche gli ottanta metri. La
motivazione a investire nel settore resta la stessa nei decenni: il ritorno
cash immediato. “In Cina ci sono parchi in cui lavoriamo dove entrano e pagano
cash anche 15 mila persone al giorno…” Gli artigiani di Bergantino di un tempo
oggi sono ingegneri globe-trotter. E in paese è nato un museo unico al mondo
che ripercorre la storia delle giostre; arriva gente dalla Scandinavia, dal
Canada, dall’Australia. Un percorso poetico che offre spunti storici inediti:
“Durante la seconda guerra mondiale le donne di Bergantino hanno preso in mano
la situazione per non chiudere baracca e burattini” racconta il direttore del
museo, Tommaso Zaghini. “Hanno fatto la patente, guidato i camion, sfidato la
prepotenza degli uomini in giro per l’Italia e l’Europa. Quindi tornavano a
Bergantino e portavano nuovi costumi, indossavano pantaloni, frequentavano il
bar. La cultura contadina e stanziale del Polesine qui si è fusa con quella
nomade”.
Terra e uomini in continuo movimento, il Polesine è
un Pianeta spregiudicato per necessità. A Scardovari, la sacca dell’oro grigio,
il contadino è diventato dalla sera alla mattina coltivatore d’acqua. Lo
racconta Gigi Veronese nella sua barca sul Po di Maistra, passando in rassegna
gli esodi che hanno flagellato questa fetta d’Italia, bonifica dopo bonifica,
padrone dopo padrone, compreso il Fiume che nel ‘51 ha imposto la legge del
padre-padrone. Prima fuga dopo che il fascismo impose il calmiere al prezzo del
pregiato riso del Delta e si cominciò a trivellare per estrarre il gas nel
periodo delle sanzioni; l’estrazione produsse il fenomeno del bradisismo, il
terreno del Polesine si sgonfiò come una mammella munta, aumentando le
inondazioni, interi paesi si spopolarono. Poi l’apocalisse del ‘51, la
costruzione degli argini, lo Stato che decide la distribuzione delle terre
acquistate ai latifondisti, ma la fuga è ormai inarrestabile… “Finche’ non
accade un fatto straordinario che ha ribaltato la situazione”, dice Gigi. “Un
biologo scopre che la laguna del Delta è il paradiso per la vongola filippina…
E posti semiabbandonati come Pila o Goro diventano una specie di piccole
Dubai”. Oggi si raccolgono circa 10 mila tonnellate di vongole e 15 mila
tonnellate di cozze, le uniche Dop al mondo, come ha appena deciso l’Unione
europea. E al Consorzio Cooperative Pescatori del Polesine stanno valutando gli
esiti di alcune ricerche secondo cui le cozze catturano quantità tali di CO2 da
rendere i bilanci dell’allevamento addirittura positivi per l’ambiente.
La veleria firmata
Maurizio Barotto voga con
calma. Segue il ritmo dei suoi pensieri placidi. Siamo a Fratta Polesine, a due
passi dalla palladiana Villa Badoer e dalla casa natale di Giacomo Matteotti.
Il Canal Bianco verso il Po è giallo e Maurizio dice che è buon segno, vuol
dire che è vivo. E gli crediamo, perché lui parla “con lo spirito del fiume”.
Stiamo facendo ritorno per cenare alla sua locanda, il Mulino al Pizzon,
costruito dagli austriaci a due passi dalla prima base carbonara del
Risorgimento; ma anche la locanda oggi è una specie di luogo sedizioso per
golosi, gli avventori e le avventrici sembrano una società segreta che
complotta per la rinascita del Po. Maurizio dice che ha costruito il “batel”,
la barca che s’usava per pescare lo storione e traghettare sulla sponda
emiliana, come tributo a quel che il fiume gli ha dato nella vita. “Quando l’ho
messa in acqua ho sentito che il Po mi diceva grazie. La prima barca l’ho
sistemata da ragazzo, con le vele ricavate dalle lenzuola della dote di mia
madre, una veleria di canapa firmata e ricamata a mano. Ma ora la gente sta
rinnegando il fiume, guarda quanto odio c’è verso il siluro. Neanche fosse il
diavolo, povera bestia. Il Po l’ha accolto, fa parte del nostro mondo ormai. Ma
risalendo il fiume, su quel pesce ne sentirete dire di tutti colori…”
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2/8 - The River Journal Project
testo di Marzio G. Mian e Nicola Scevola
Foto di Nanni Fontana e Massimo Di Nonno
Pubblicato su Sette
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