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Passeggiando per New York con le orecchie tese, capita di sentire parlare decine di lingue diverse dall’inglese. Molte volte sono lingue comuni come lo spagnolo, il cinese o l’arabo. Alcune volte, invece, si tratta idiomi rari, usati ormai più fra gli immigrati americani che nei rispettivi luoghi d’origine.
Nella zona di Dyker Heights, a Brooklyn, è più facile ascoltare i suoni gutturali dello Shugni di quanto non succeda sull’altipiano asiatico del Pamir, dove la lingua è nata migliaia di anni fa. E ci sono certamente più persone che parlano Gottescheer a Ridgewood, in Queens, rispetto a quante ne sono rimaste in una piccola enclave tedesca in territorio sloveno.
Grazie alle migliaia d’immigrati che si sono stabiliti in questa città nel corso degli anni, New York è diventata un laboratorio ideale per studiare le lingue in via di estinzione. E un gruppo di filologi locali non si è fatto sfuggire l’occasione, setacciando i cinque quartieri della Grande Mela come fossero i cinque continenti della Terra.
“New York è la città con la più alta concentrazione d’idiomi al mondo”, dice Daniel Kaufman, linguista della City University of New York e fondatore della Endangered Language Alliance (Ela), organizzazione che si dedica alla conservazione dei linguaggi. “Si parlano circa 800 lingue diverse, la metà delle quali rischia di non esistere più nel giro di una generazione”.
Dal gaelico al garifuna (dei Caraibi), dal mixe (della provincia messicana di Oaxaca) al mamuju (dell’Indonesia), nei quartieri della Grande Mela si posso ascoltare i suoni antichi di diletti rari e apparentemente incomprensibili. Oltre a lavorare con gli esperti di alcuni di questi dialetti, i linguisti dell’Ela e una squadra di volontari stanno mappando la città per creare un atlante linguistico.
L’idea di usare New come laboratorio di studio è nata anche a causa delle difficoltà che spesso rendono impraticabile l’approccio tradizionale del linguista, costretto a trascorrere mesi a contatto con le comunità sparse per il mondo. Secondo i dati dell’Unesco, più della metà delle quasi 7000 lingue parlate oggi sul nostro pianeta sono considerate in pericolo e rischiano di scomparire nel giro di un secolo. A fronte di questo fenomeno di crescente erosione, però, i linguisti che si occupano a tempo pieno di studiare le lingue in pericolo sono meno di un centinaio in tutto il mondo.
Oltre allo scarso numero degli addetti ai lavori, le difficoltà logistiche delle ricerche sul campo complicano spesso il lavoro degli studiosi. E anche per questo, la possibilità di concentrare gli sforzi in una città come New York può segnare una svolta.
“Qui esiste una situazione ideale per la presenza d’immigrati e la libertà di espressione garantita a chiunque”, dice Juliette Blevins, linguista che lavora all’Ela. “Spesso la scomparsa di un linguaggio deriva dalla violazione di diritti umani e dalla prevaricazione di una cultura sull’altra”.
Daowd Salih ne sa qualcosa. E’ arrivato negli Stati Uniti alla fine degli anni Novanta, come rifugiato dal nativo Darfur. Qui ha fondato Damanga, un’associazione che promuove la democrazia e i diritti umani in Darfur e da un anno collabora con la Ela. La sua etnia, Massalit, è la prima ad essere stata presa di mira negli anni Novanta dalle milizie janjaweed appoggiate dal governo centrale di Kartoum. Oggi la sua lingua è stata praticamente cancellata dal Darfur e sopravvive solo nei campi profughi in Ciad e in altre parti del Sudan, dove la sua gente ha trovato rifugio insieme a migliaia di sfollati di altre tribù. In Sudan la lingua è il carattere principale che determina l’appartenenza tribale. Nei campi profughi, però, i rifugiati sono costretti ad utilizzati l’arabo come lingua franca per comprendersi.
“Non esistendo testi scritti, il rischio è che le nuove generazioni crescano senza conoscere la loro lingua d’appartenenza”, dice Salih, che sta lavorando alla compilazione di una grammatica e di un dizionario di Massalit. “E un popolo senza lingua è come una nazione senza primo ministro: manca di una vera rappresentatività”.
Qualcosa di simile è capitato a Martha Hutter, che abita in Queens ed è una delle ultime persone al mondo che parla gottscheerisch, dialetto tedesco le cui origini risalgono al XIV secolo. La sua comunità fu costretta ad abbandonare la Slovenia prima dall’arrivo dei tedeschi e poi dai partigiani iugoslavi. Oggi Hutter ha 76 anni e parla la sua lingua solo con i fratelli e con qualche vicino di casa della sua generazione. In presenza dei figli passa all’inglese. Ha sempre cercato di far conoscere ai suoi eredi la cultura gottschee, ma non ha voluto forzarli ad imparare una lingua obsoleta “perché a questo mondo manca già il tempo per imparare le cose più utili, figurarsi quelle inutili”.
Nonostante questo, Hutter è consapevole dei pericoli connessi all’estinzione di un linguaggio. Gli studiosi la paragonano alla scomparsa di una specie animale, che impoverisce un ecosistema riducendo la possibilità di comprenderne l’evoluzione.
“E’ il collante che ha tenuto insieme la nostra comunità per secoli e ci ha permesso di condividere valori e tradizioni”, sottolinea Hutter.
Violenze e abusi di una cultura dominante su un’altra non sono l’unico motivo alla base della recente scomparsa di molte lingue. Lo sviluppo economico dell’ultimo secolo ha contribuito alla disgregazione di piccole comunità, con la conseguente uniformizzazione delle lingua. Anche in questo campo New York ha giocato un ruolo fondamentale, accogliendo migliaia d’immigrati in cerca di lavoro e trasformandosi in una babele oggi tanto apprezzata dai filologi.
“La lingua che usano è rimasta congelata negli anni”, fa notare Ylana Beller, linguista newyorkese e studiosa del dialetto di Quaglietta, un paese in provincia di Avellino che ormai conta più abitanti nel Queens che fra le montagne dell’Irpinia.
Quando si riuniscono nella sede della loro associazione, i quagliettani d’America sono tenuti a parlare in dialetto, sorta di napoletano spruzzato di parole d’origini spagnole.
Beller, che ha studiato a Padova e sta finendo un dottorato alla City University of NY, vuole creare un frasario per aiutare la comunità a conservare il dialetto e trasmetterlo alle nuove generazioni. Al momento, però, queste non sembrano molto interessate. Qualche tempo fa i rampolli dei quagliettani d’America hanno cercato sena successo d’introdurre l’inglese nelle riunioni dei membri più giovani.
“Non glielo abbiamo permesso”, dice Vincenzo Carpinelli, presidente dell’associazione immigrato a New York 35 anni fa. “Uno dei nostri scopi principali è preservare la lingua, senza quella la nostra comunità perderebbe la sua identità”.
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