
Pubblicato su Uomo Vogue:
Con più di centocinquanta film all’attivo, tre mogli attrici e altrettanti figli che lavorano nel cinema, Donald Sutherland ha qualche ragione per dire che la recitazione “è un mestiere di famiglia”.
“E’ nel sangue mio come in quello di mia moglie, e i miei figli l’hanno ereditato da noi”, dice l’intramontabile eroe di M.A.S.H.
Una predisposizione genetica può aver favorito la continuazione della tradizione familiare, ma l’esempio del capostipite e i suoi incoraggiamenti hanno sicuramente giocato un ruolo fondamentale. A partire dai nomi scelti per i figli, ispirati a famosi registi: Kiefer, pseudonimo del cineasta italiano Lorenzo Sabatini che diresse il primo film interpretato da Sutherland; Rossif, cognome di un documentarista francese; Angus Redford, come il Robert che diresse Donald nel pluripremiato Gente comune.
L’ultimo a seguire le orme paterne è stato Rossif, 31enne avuto dal matrimonio con l’attrice canadese Francine Racette.
Musicista, scrittore, attore, il rampollo della famiglia Sutherland ha recitato in vari episodi della serie televisiva E.R., ha avuto ruoli di supporto in alcuni lungometraggi e ha finito da pochi mesi di girare un film con il padre.
Nonostante i suoi 74 anni, infatti, l'artista canadese salito alla ribalta nel 1967 con Quella sporca dozzina continua a lavorare a pieno regime, e questa è la prima volta in cui si è ritrovato insieme al figlio davanti ad una cinepresa.
“E’ stato molto divertente. E' venuto tutto in modo istintivo e automatico”, racconta l’attore ricorrendo ad una metafora che avrebbe potuto uscire dalla bocca del capitano ‘Hawkeye’ Pierce, il chirurgo della parodia sulla guerra di Corea diretta da Robert Altman. “Il film era il nostro campo di battaglia e noi ci sentivamo come due commilitoni la cui sopravvivenza dipendeva dall’intesa reciproca”.
La pellicola, che non ha ancora un titolo definitivo ma è temporaneamente chiamata The steal artist, racconta la storia di un ladro-artista (Rossif) che esce di prigione con l’idea di guadagnarsi la vita onestamente, ma è costretto a tornare a delinquere dal suo ex boss (Donald).
“Sognavo l’occasione di lavorare con mio padre in un film”, dice Rossif. “In fondo lui rappresenta la vera ragione per cui mi sono imbarcato in questa professione”.
Da bambino, Rossif andava spesso sui set per osservare “il grande maestro all’opera”. Al cinema, poi, non riusciva a guardare con obiettività i film in cui appariva il genitore e soffriva come se le tragedie dello schermo fossero reali.
“Ogni volta che nella storia succedeva qualcosa a mio padre, mi si spezzava il cuore”, ricorda il giovane Sutherland. “E purtroppo moriva nella maggior parte dei film!”.
Prima di iniziare le riprese, Rossif guardava con ansia al momento in cui si sarebbe trovato a recitare al fianco del padre: temeva di sentirsi intimidito e giudicato.
Spesso era ricorso al suo aiuto per provare una parte o avere un parere su un copione. Mai prima di questa volta, però, si era trovato su un vero set, per di più con i ruoli invertiti: lui, il giovane, nella parte del protagonista e Donald, il veterano, in quella di supporto.
“E’ successo il contrario di quello che mi aspettavo”, racconta. “Ho imparato sulla mia pelle che un bravo attore come mio padre è capace di metterti a tuo agio, dandoti la possibilità di tirare fuori il meglio di te”.
Invece che ossessionare il figlio di consigli, Donald sostiene di essersi limitato ad un suggerimento.
“Gli ho ricordato di essere onesto e appassionato perché, come diceva Sam Goldwyn [fondatore della Metro Goldwyn Mayer, famoso per gli aforismi strampalati, ndr], il segreto per recitare sta nell’onestà e quando si è capaci di falsificare anche quella non ci sono più problemi’”.
Quello della sincerità è un tema ricorrente per Sutherland.
L’eroe di Dove osano le aquile è sempre stato un idealista. Fin dai tempi delle proteste contro la guerra in Vietnam organizzate insieme a Jane Fonda, sua compagna a cavallo degli anni Settanta, l’attore era famoso per inframmezzare le interviste con discorsi politici, oltre che con citazioni tratte dagli autori più disparati. Oggi i suoi agenti gli consigliano di lasciare da parte certi temi controversi, ma a volte l’attore non si trattiene. Così, mentre racconta del rapporto con il figlio, di punto in bianco può capitare che se ne esca con una frase tipo: “Ultimamente penso spesso ad un commento fatto da uno dei capi degli indiani d’America, Toro Seduto: sosteneva che la brama di possesso fosse la vera malattia dell’uomo bianco”.
I momenti seri, però, tendono ad essere sempre spezzati da battute e frasi surreali.
Dopo aver descritto la ricerca della verità come l’aspetto più interessante dell’essere attore, aggiunge sorridendo: “Certo, anche la possibilità di trovare sempre posto al ristorante è un bel vantaggio…”. E quando gli si chiede qual è il film di cui va più fiero fra quelli che ha interpretato, risponde: “La Battaglia di Algeri, perché scegliere fra uno dei miei film sarebbe come chiedermi qual è il preferito fra i miei figli”.
Dopo una simile affermazione, non possiamo certo definire Rossif come il preferito. Descriverlo, però, come molto vicino al padre sembra appropriato.
Entrambi vivono nello stesso quartiere di Los Angeles che si affaccia sull’Oceano e si vedono di frequente. Al di la di alcune somiglianze fisiche – l’altezza, la presenza distinta, le orecchie prominenti – Donald ammette di rispecchiarsi molto nel figlio.
Come il padre, Rossif non è sempre stato convinto di voler fare l’attore. Mentre Sutherland senior ha preso una laurea in ingegneria prima di dedicarsi seriamente al cinema, però, il suo erede ha cominciato accarezzando l’idea di fare lo scrittore. Un giorno, quando era studente a Princeton, gli capitò di dover rimpiazzare all’ultimo momento il protagonista di un corto che stavano girando a scuola.
Tornò a casa mostrò il filmato al padre, il quale rimase talmente impressionato che gli vennero le lacrime agli occhi.
“Gli consigliai subito di pensare seriamente a fare l’attore”, ricorda Donald tradendo ancora una punta di orgoglio residuo.
Guai, però, a domandare se l’entusiasmo con cui fu accolta l’opera prima del figlio non fosse stato influenzato dalla parentela stretta e dalla speranza che la performance preludesse all’ingresso di un nuovo attore in famiglia.
“Questa è una domanda sciocca”, risponde Donald piccato. “Il mio lavoro di attore consiste nella ricerca della verità, e tento di applicare lo stesso concetto anche alla mia vita privata”.
Il capitano fascista del 900 di Bertolucci credeva nelle potenzialità del figlio al punto da proporgli di andare a New York per seguire le lezioni di un famoso insegnante di recitazione.
“All’inizio non ero convinto: mi sembrava che lavorare per fingere di essere qualcun altro non potesse aiutarmi a scoprire chi ero io veramente”, confessa Rossif.
Con il tempo, però, il ragazzo si è lasciato conquistare dal fascino della professione.
“Ero curioso di scoprire i trucchi dietro le quinte”.
Una volta imparati, The steal artist gli ha dato l’occasione di condividere questi trucchi con il padre, dando vita ad un esperienza che va ben oltre l’impresa cinematografica.
“Non so se il film avrà successo, ma rappresenterà comunque un grande capitolo nel piccolo libro della mia vita”.
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