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Foto: Piero Martinello |
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Foto: Piero Martinello |
Uno ha da poco guadagnato la sua prima stella Michelin, l’altro ne ha accumulate talmente tante dal finire col rifiutarle tutte. Matias Perdomo è un giovane cuoco uruguayano che ha rivoluzionato la cucina tradizionale dell’osteria milanese Al Pont De Ferr, trasformandola in uno dei ristoranti più innovativi del capoluogo meneghino. Gualtiero Marchesi è il padre della cucina italiana moderna, ambasciatore dei sapori nostrani nel mondo.
Di primo acchito, i due cuochi sembrerebbero
spartire ben poco oltre al titolo di chef, separati come sono da mezzo secolo
di storia in cucina, oltre che da locali agli antipodi: Perdomo lavora in
un’osteria rustica, Marchesi in un elegante ristorante in un
Relais&Chateaux su colli bresciani. In realtà hanno più di un punto in
comune, fra cui uno scetticismo condiviso nei confronti delle guide culinarie e
una passione per la sperimentazione.
“Non capisco il metodo di giudizio della
guida Michelin”, confessa il maestro 82enne, che guadagnò il primo
riconoscimento dalla guida francese alla fine degli anni Settanta e nell’85
divenne il primo italiano a ottenere tre stelle, grado massimo nella scala
d’oltralpe. “I critici dovrebbero criticare meno e fare più cronaca,
rispettando e raccontando la storia delle persone”.
La rottura definitiva è avvenuta quattro
anni fa, quando Marchesi ha deciso di restituire le étoile e non accettare più critiche da qualsiasi guida.
Dal canto suo, Perdomo sta ancora gustando
l’inaspettato arrivo a inizio anno della prima stella, foriera di un brillante
avvenire per un cuoco appena trentenne. Il Pont de Ferr, di cui dirige la
cucina dal 2006, è lontano dai canoni estetici della guida francese: niente
tovaglie, bagno all’esterno e atmosfera da osteria. La promozione
nell’esclusivo club degli stellati è stata quindi una sorpresa.
“Mi ha fatto piacere perché è una guida
importante. Ma è vero che ha metodi di giudizio un po’ strani”, dice Perdomo al
telefono dal suo ristorante sui Navigli. “Per questo credo sia assurdo lavorare
solo per andare incontro ai vademecum per gourmet”.
Perdomo ha già dimostrato di non badare troppo al
giudizio dei critici. Appena presa in mano la cucina dell’osteria, dopo un
periodo da secondo cuoco, lo chef sudamericano ha rivoluzionato il menù di
piatti tipici milanesi, allontanando la guida Slow Food, fino allora punto di
riferimento del ristorante.
“Mi è spiaciuto essere tolto dalla guida
piemontese, ma mi fido più delle reazioni dei clienti che dei critici”, dice
Perdomo, che ha iniziato la carriera in Uruguay e ha continuato la formazione
in Spagna, al Berasategui di San Sebastian e dai fratelli Roca di Girona.
Questo, agli occhi di Marchesi, segna un punto a
favore del giovane collega. Il decano della cucina italiana sa che non dar
troppo peso ai giudizi dei critici può essere difficile per chi deve ancora
affermarsi.
“Per non farsi condizionare dalle classifiche
bisogna avere grande personalità”, ammette il maestro dal suo ristorante di
Erbusco.
Il segreto di Perdomo per conquistare i
critici francesi è stato il suo amore per la sperimentazione e il coraggio di
rompere con la tradizione dei piatti lombardi.
“Essere straniero per me è un vantaggio,
perché non ho paura di affrontare la cucina italiana senza rigidità”, dice il
cuciniere che è nato in Argentina e ha vissuto in Uruguay, Brasile e Danimarca.
“Non porto sulle spalle il peso del ricordo del risotto della nonna”, aggiunge
lo chef divenuto famoso per ricette come le cipolle di Tropea caramellate e gli
gnocchi alla brace.
Pur condividendo la passione per la
modernizzazione dei piatti, però, Marchesi resta scettico della sperimentazione
portata all’estremo, soprattutto quando rischia di trasformarsi in scorciatoia
per stupire. E riassume il suo punto di vista citando un proverbio brasiliano
che recita: lascia com’è per vedere come rimane.
“Ora c’è la corsa alla creatività, ma se
non conosci a fondo la materia rischi solo d’intortarti”, avverte l’inventore
del raviolo aperto e del risotto all’oro. “La cucina non è fatta solo di sapori
ma anche di tempo e memoria”.
Oggi Marchesi si mette raramente ai
fornelli, ma continua a esplorare il mondo della gastronomia. Nei prossimi mesi
ha in programma di viaggiare per cinque città alla ricerca d’ispirazione:
Marrakech, Shanghai, Londra, San Pietroburgo e New York.
“Ho bisogno di dare una sferzata, magari
con delle spezie, naturalmente fatte all’italiana”, confessa.
Nonostante la veneranda età, Marchesi non
nasconde la sua voglia di scoperta.
“Cerco nuovi stimoli perché, come ha detto
il mio collega Paul Bocuse quando aveva ottantasei anni, credo che il bello
debba ancora venire”.
Prima di lanciarsi nelle sperimentazioni
che hanno dato fama ai suoi ristoranti, però, Marchesi ricorda di aver studiato
tanto, sia in cucina che fuori. Approfittando del fermento della Milano degli
anni Settanta, frequentò artisti e intellettuali finendo, ad esempio, con
l’imparare l’uso dei colori da Augusto Garau, insigne studioso delle teorie
cromatiche.
“Ho sempre avuto il coraggio di
sperimentare, ma c’è voluto tempo per maturare”, dice il cuoco famoso per i
piatti ispirati a opere d’arte, come il Dripping di pece di Pollockiana memoria
e le quattro paste dedicate a Warhol.
Anche Perdomo vanta una certa sensibilità
artistica e ama presentare con cura le sue ricette, creando piatti intitolati ad
artisti come il Calamaro di Mirò. Ma capisce la diffidenza di Marchesi nei
confronti dei giovani che si lanciano in una cucina troppo mentale. Ed è il
primo ad ammettere che per comprendere a fondo la cucina italiana occorre molto
più tempo di quanto gli abbia permesso la sua breve carriera.
“E’ talmente complessa che ancora fatico a
capirla fino in fondo” ammette Perdomo. “Ma è proprio questo a renderla la
cucina più interessante al mondo”.
Pubblicato su L'Officiel Hommes Italia
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