giovedì 18 ottobre 2012

Marchesi VS Perdomo, Chef a confronto


Foto: Piero Martinello
Foto: Piero Martinello

Uno ha da poco guadagnato la sua prima stella Michelin, l’altro ne ha accumulate talmente tante dal finire col rifiutarle tutte. Matias Perdomo è un giovane cuoco uruguayano che ha rivoluzionato la cucina tradizionale dell’osteria milanese Al Pont De Ferr, trasformandola in uno dei ristoranti più innovativi del capoluogo meneghino. Gualtiero Marchesi è il padre della cucina italiana moderna, ambasciatore dei sapori nostrani nel mondo.
Di primo acchito, i due cuochi sembrerebbero spartire ben poco oltre al titolo di chef, separati come sono da mezzo secolo di storia in cucina, oltre che da locali agli antipodi: Perdomo lavora in un’osteria rustica, Marchesi in un elegante ristorante in un Relais&Chateaux su colli bresciani. In realtà hanno più di un punto in comune, fra cui uno scetticismo condiviso nei confronti delle guide culinarie e una passione per la sperimentazione.
“Non capisco il metodo di giudizio della guida Michelin”, confessa il maestro 82enne, che guadagnò il primo riconoscimento dalla guida francese alla fine degli anni Settanta e nell’85 divenne il primo italiano a ottenere tre stelle, grado massimo nella scala d’oltralpe. “I critici dovrebbero criticare meno e fare più cronaca, rispettando e raccontando la storia delle persone”.
La rottura definitiva è avvenuta quattro anni fa, quando Marchesi ha deciso di restituire le étoile e non accettare più critiche da qualsiasi guida.
Dal canto suo, Perdomo sta ancora gustando l’inaspettato arrivo a inizio anno della prima stella, foriera di un brillante avvenire per un cuoco appena trentenne. Il Pont de Ferr, di cui dirige la cucina dal 2006, è lontano dai canoni estetici della guida francese: niente tovaglie, bagno all’esterno e atmosfera da osteria. La promozione nell’esclusivo club degli stellati è stata quindi una sorpresa.
“Mi ha fatto piacere perché è una guida importante. Ma è vero che ha metodi di giudizio un po’ strani”, dice Perdomo al telefono dal suo ristorante sui Navigli. “Per questo credo sia assurdo lavorare solo per andare incontro ai vademecum per gourmet”.
Perdomo ha già dimostrato di non badare troppo al giudizio dei critici. Appena presa in mano la cucina dell’osteria, dopo un periodo da secondo cuoco, lo chef sudamericano ha rivoluzionato il menù di piatti tipici milanesi, allontanando la guida Slow Food, fino allora punto di riferimento del ristorante.
“Mi è spiaciuto essere tolto dalla guida piemontese, ma mi fido più delle reazioni dei clienti che dei critici”, dice Perdomo, che ha iniziato la carriera in Uruguay e ha continuato la formazione in Spagna, al Berasategui di San Sebastian e dai fratelli Roca di Girona.
Questo, agli occhi di Marchesi, segna un punto a favore del giovane collega. Il decano della cucina italiana sa che non dar troppo peso ai giudizi dei critici può essere difficile per chi deve ancora affermarsi.
“Per non farsi condizionare dalle classifiche bisogna avere grande personalità”, ammette il maestro dal suo ristorante di Erbusco.
Il segreto di Perdomo per conquistare i critici francesi è stato il suo amore per la sperimentazione e il coraggio di rompere con la tradizione dei piatti lombardi.
“Essere straniero per me è un vantaggio, perché non ho paura di affrontare la cucina italiana senza rigidità”, dice il cuciniere che è nato in Argentina e ha vissuto in Uruguay, Brasile e Danimarca. “Non porto sulle spalle il peso del ricordo del risotto della nonna”, aggiunge lo chef divenuto famoso per ricette come le cipolle di Tropea caramellate e gli gnocchi alla brace.
Pur condividendo la passione per la modernizzazione dei piatti, però, Marchesi resta scettico della sperimentazione portata all’estremo, soprattutto quando rischia di trasformarsi in scorciatoia per stupire. E riassume il suo punto di vista citando un proverbio brasiliano che recita: lascia com’è per vedere come rimane.
“Ora c’è la corsa alla creatività, ma se non conosci a fondo la materia rischi solo d’intortarti”, avverte l’inventore del raviolo aperto e del risotto all’oro. “La cucina non è fatta solo di sapori ma anche di tempo e memoria”.
Oggi Marchesi si mette raramente ai fornelli, ma continua a esplorare il mondo della gastronomia. Nei prossimi mesi ha in programma di viaggiare per cinque città alla ricerca d’ispirazione: Marrakech, Shanghai, Londra, San Pietroburgo e New York.
“Ho bisogno di dare una sferzata, magari con delle spezie, naturalmente fatte all’italiana”, confessa.
Nonostante la veneranda età, Marchesi non nasconde la sua voglia di scoperta.
“Cerco nuovi stimoli perché, come ha detto il mio collega Paul Bocuse quando aveva ottantasei anni, credo che il bello debba ancora venire”. 
Prima di lanciarsi nelle sperimentazioni che hanno dato fama ai suoi ristoranti, però, Marchesi ricorda di aver studiato tanto, sia in cucina che fuori. Approfittando del fermento della Milano degli anni Settanta, frequentò artisti e intellettuali finendo, ad esempio, con l’imparare l’uso dei colori da Augusto Garau, insigne studioso delle teorie cromatiche.
“Ho sempre avuto il coraggio di sperimentare, ma c’è voluto tempo per maturare”, dice il cuoco famoso per i piatti ispirati a opere d’arte, come il Dripping di pece di Pollockiana memoria e le quattro paste dedicate a Warhol.
Anche Perdomo vanta una certa sensibilità artistica e ama presentare con cura le sue ricette, creando piatti intitolati ad artisti come il Calamaro di Mirò. Ma capisce la diffidenza di Marchesi nei confronti dei giovani che si lanciano in una cucina troppo mentale. Ed è il primo ad ammettere che per comprendere a fondo la cucina italiana occorre molto più tempo di quanto gli abbia permesso la sua breve carriera.
“E’ talmente complessa che ancora fatico a capirla fino in fondo” ammette Perdomo. “Ma è proprio questo a renderla la cucina più interessante al mondo”.

Pubblicato su L'Officiel Hommes Italia

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