mercoledì 10 ottobre 2012

Ribelle come i miei ricci

Photo by Marco Glaviano
Che somigliano a dreadlocks, "ma guai a chiamarli così", dice Cassandra Wilson. E sono indipendenti proprio come quello spirito ribelle che le ha permesso di diventare una grande cantante jazz.

Per fortuna c’è chi riesce a imparare a suonare uno strumento anche sui libri. Altrimenti un talento come Cassandra Wilson avrebbe rischiato di abbandonare la musica molto presto. Privando il mondo intero di una delle voci più appassionanti del jazz contemporaneo. Wilson, 56enne originaria di Jackson, Mississippi, inizia a prendere lezioni di piano e clarinetto quando ha appena sei anni. Molto presto, però, i metodi tradizionali dei suoi insegnanti cominciano a starle stretti.
E’ allora che il padre, musicista e fine conoscitore dello spirito ribelle e testardo della figlia, le mette in mano un libro per chitarristi autodidatti, spronandola ad esplorare la musica in modo più libero e intuitivo. Ispirata dalla proposta, Wilson si butta a capofitto nel jazz e nel folk, scrivendo brani e affinando voce e chitarra allo stesso tempo. E forgiando lo spirito indipendente che da allora l’ha sempre distinta, trasformandola in pioniera della cross-pollination, stile meticcio che fonde jazz, pop, blues e world music e le ha già fruttato due Grammy Awards.
Quando la incontriamo in uno studio fotografico affacciato sull’Hudson River di New York, Wilson porta grandi orecchini a forma di violino, una maglietta a maniche nere e pantaloni svolazzanti. Fuma una sigaretta dopo l’altra, il che rende più facile intuire la natura densa e profonda del suo timbro di voce. I capelli sono arrangiati in lunghi locks (non dreadlocks, come tiene a specificare), ormai divenuti un marchio di fabbrica insieme alla sua voce da contralto. Li tiene così dai tempi del liceo, quando comincia a rompere le prime barriere, interpretando la parte di Dorothy nel musical Il Mago di Oz, prima volta che il ruolo viene affidato a una studentessa afroamericana in uno Stato che ha abolito le leggi di segregazione razziale da poco. D’altronde uscire dagli schemi è sempre stato una sua specialità. Arrivata all’università di Jackson negli anni Settanta, fonda una bebop band con due musicisti bianchi. E continua a sperimentare, spostandosi a New York e mescolando generi musicali diversi, da solista o con un collettivo jazz chiamato M-Base. Quando comincia a girare l’Europa in tournè, arriva nel nostro paese e se ne innamora follemente. Solo i nugoli di zanzare di qualche arena estiva rischiano di rovinare l’idillio. Ma è un difetto trascurabile. Tanto che, ancora oggi, Wilson cerca sempre di avere più date possibili nel nostro paese. E nell’ultimo album uscito quest’estate, prodotto insieme al chitarrista italiano Fabrizio Sotti e intitolato Another Country, ha voluto incidere una versione di O Sole Mio.
“So che può sembrare strano che una cantante americana si confronti con un pezzo simile”, dice Wilson un’inglese con l’accento cantilenante tipico del sud degli Stati Uniti. “Ma è un pezzo che mi è sempre piaciuto, soprattutto nella versione originale di Mario Lanza”.
Lei parla italiano?
“Solo poche parole. Ma è una lingua che sento molto vicina. Nella mia O Sole Mio ho cercato di restare fedele al testo in dialetto napoletano, trovando allo stesso tempo un modo originale di reinterpretare la canzone”.
Da dove viene questa passione per l’Italia?
“E’ una questione di vibrazioni. C’è qualcosa nel modo in cui la gente si muove, parla e mangia che mi è familiare. Non so esattamente perché. Forse ha a che fare con la cultura meridionale in generale, che sia del sud d’Europa o del sud degli Stati Uniti. Nel vostro paese c’è un modo di godersi la vita che mi fa sentire a casa”.
Ci ha passato molto tempo?
“Sì, per lavoro. Suonare in Italia rende qualsiasi tournè più leggera. C’è una sensualità nella cultura e nel cibo che non esiste da nessun’altra parte. Per questo cerco sempre di prenotare più concerti possibili in Italia. Guadagno meno che suonando in Francia o in Germania ma ne vale la pena”.
Anche quando è costretta ad abbandonare il palco per le troppe zanzare come successe qualche anno fa durante un concerto nell’hinterland milanese?
“No, infatti continuo ad avere un problema con Milano. Non mi è mai capitata una cosa simile. E sì che abbiamo tante zanzare anche dalle mie parti in Mississippi”.
Oltre a suonare basso e chitarra, suo padre era anche maestro di musica. Perché ha preferito metterle in mano un libro per autodidatti anziché insegnarle personalmente?
“Quando ho abbandonato le lezioni di piano ero talmente stufa che pensavo di smettere di suonare. Mio padre capì che nel mio caso un approccio intuitivo avrebbe funzionato meglio di uno formale. Mi ha sempre appoggiato molto, a differenza di mia madre, che era preoccupata dal tipo di vita che avrei potuto fare come musicista”.
Lei è stata una pioniera delle contaminazioni musicali fra generi differenti. Oggi questa pratica è diventata piuttosto comune, anche grazie all’uso della tecnologia.
“E’ cambiato il modo in cui si crea musica, ma la tendenza a fondere generi diversi rimane la stessa. Oggi i giovani usano più i software degli strumenti musicali. Ma il processo per arrivare al prodotto finale rimane invariato”.
Com’è cambiata la sua voce nel tempo?
“Stratificandosi e acquisendo più sfumature. Le esperienze della vita hanno contribuito ad arricchire la mia voce”.
Da sempre la sua capigliatura è uno dei suoi tratti distintivi, come se ne prende cura? 
“Non pettinandoli mai e lasciandoli crescere nella loro forma naturale a spirale. Li taglio solo raramente. L’ultima volta è stata due anni fa. Erano diventati scomodi per dormire la notte. Continuavo a muoverli per trovare la giusta posizione sul cuscino. Per il resto è tutto naturale. Avendo capelli come i miei, basta lavarli senza usare l’asciugacapelli. E se è inverno, sto a casa al caldo fino a quando non sono ben asciutti”. 

Pubblicato su Amica

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