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Photo by Marco Glaviano |
Per fortuna c’è chi riesce a imparare a
suonare uno strumento anche sui libri. Altrimenti un talento come Cassandra
Wilson avrebbe rischiato di abbandonare la musica molto presto. Privando il
mondo intero di una delle voci più appassionanti del jazz contemporaneo.
Wilson, 56enne originaria di Jackson, Mississippi, inizia a prendere lezioni di
piano e clarinetto quando ha appena sei anni. Molto presto, però, i metodi
tradizionali dei suoi insegnanti cominciano a starle stretti.
E’ allora che il
padre, musicista e fine conoscitore dello spirito ribelle e testardo della
figlia, le mette in mano un libro per chitarristi autodidatti, spronandola ad
esplorare la musica in modo più libero e intuitivo. Ispirata dalla proposta,
Wilson si butta a capofitto nel jazz e nel folk, scrivendo brani e affinando
voce e chitarra allo stesso tempo. E forgiando lo spirito indipendente che da
allora l’ha sempre distinta, trasformandola in pioniera della cross-pollination, stile meticcio che
fonde jazz, pop, blues e world music e
le ha già fruttato due Grammy Awards.
Quando la incontriamo in uno studio
fotografico affacciato sull’Hudson River di New York, Wilson porta grandi
orecchini a forma di violino, una maglietta a maniche nere e pantaloni
svolazzanti. Fuma una sigaretta dopo l’altra, il che rende più facile intuire
la natura densa e profonda del suo timbro di voce. I capelli sono arrangiati in
lunghi locks (non dreadlocks, come tiene a specificare),
ormai divenuti un marchio di fabbrica insieme alla sua voce da contralto. Li tiene
così dai tempi del liceo, quando comincia a rompere le prime barriere,
interpretando la parte di Dorothy nel musical Il Mago di Oz, prima volta che il ruolo viene affidato a una
studentessa afroamericana in uno Stato che ha abolito le leggi di segregazione
razziale da poco. D’altronde uscire dagli schemi è sempre stato una sua
specialità. Arrivata all’università di Jackson negli anni Settanta, fonda una bebop band con due musicisti bianchi. E
continua a sperimentare, spostandosi a New York e mescolando generi musicali
diversi, da solista o con un collettivo jazz chiamato M-Base. Quando comincia a
girare l’Europa in tournè, arriva nel nostro paese e se ne innamora follemente.
Solo i nugoli di zanzare di qualche arena estiva rischiano di rovinare l’idillio.
Ma è un difetto trascurabile. Tanto che, ancora oggi, Wilson cerca sempre di
avere più date possibili nel nostro paese. E nell’ultimo album uscito
quest’estate, prodotto insieme al chitarrista italiano Fabrizio Sotti e
intitolato Another Country, ha voluto
incidere una versione di O Sole Mio.
“So che può sembrare strano che una
cantante americana si confronti con un pezzo simile”, dice Wilson un’inglese
con l’accento cantilenante tipico del sud degli Stati Uniti. “Ma è un pezzo che
mi è sempre piaciuto, soprattutto nella versione originale di Mario Lanza”.
Lei parla italiano?
“Solo poche parole. Ma è una lingua che
sento molto vicina. Nella mia O Sole Mio ho cercato di restare fedele al testo
in dialetto napoletano, trovando allo stesso tempo un modo originale di
reinterpretare la canzone”.
Da dove viene questa passione per l’Italia?
“E’ una questione di vibrazioni. C’è
qualcosa nel modo in cui la gente si muove, parla e mangia che mi è familiare.
Non so esattamente perché. Forse ha a che fare con la cultura meridionale in
generale, che sia del sud d’Europa o del sud degli Stati Uniti. Nel vostro
paese c’è un modo di godersi la vita che mi fa sentire a casa”.
Ci ha passato molto tempo?
“Sì, per lavoro. Suonare in Italia rende
qualsiasi tournè più leggera. C’è una sensualità nella cultura e nel cibo che
non esiste da nessun’altra parte. Per questo cerco sempre di prenotare più
concerti possibili in Italia. Guadagno meno che suonando in Francia o in
Germania ma ne vale la pena”.
Anche quando è costretta ad abbandonare il palco per le troppe zanzare come
successe qualche anno fa durante un concerto nell’hinterland milanese?
“No, infatti continuo ad avere un problema
con Milano. Non mi è mai capitata una cosa simile. E sì che abbiamo tante
zanzare anche dalle mie parti in Mississippi”.
Oltre a suonare basso e chitarra, suo padre era anche maestro di musica.
Perché ha preferito metterle in mano un libro per autodidatti anziché
insegnarle personalmente?
“Quando ho abbandonato le lezioni di piano
ero talmente stufa che pensavo di smettere di suonare. Mio padre capì che nel
mio caso un approccio intuitivo avrebbe funzionato meglio di uno formale. Mi ha
sempre appoggiato molto, a differenza di mia madre, che era preoccupata dal
tipo di vita che avrei potuto fare come musicista”.
Lei è stata una pioniera delle contaminazioni musicali fra generi
differenti. Oggi questa pratica è diventata piuttosto comune, anche grazie
all’uso della tecnologia.
“E’ cambiato il modo in cui si crea
musica, ma la tendenza a fondere generi diversi rimane la stessa. Oggi i
giovani usano più i software degli strumenti musicali. Ma il processo per
arrivare al prodotto finale rimane invariato”.
Com’è cambiata la sua voce nel tempo?
“Stratificandosi e acquisendo più
sfumature. Le esperienze della vita hanno contribuito ad arricchire la mia
voce”.
Da sempre la sua capigliatura è uno dei suoi tratti distintivi, come se ne
prende cura?
“Non pettinandoli mai e lasciandoli
crescere nella loro forma naturale a spirale. Li taglio solo raramente.
L’ultima volta è stata due anni fa. Erano diventati scomodi per dormire la
notte. Continuavo a muoverli per trovare la giusta posizione sul cuscino. Per
il resto è tutto naturale. Avendo capelli come i miei, basta lavarli senza
usare l’asciugacapelli. E se è inverno, sto a casa al caldo fino a quando non
sono ben asciutti”.
Pubblicato su Amica
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