Mentre il telefono squilla e aspetto che
Willem Dafoe alzi la cornetta, mi domando chi troverò all’altro capo del filo.
L’attore ha sempre preferito farsi conoscere attraverso i personaggi
interpretati al cinema o a teatro. Il che significa che, potenzialmente, potrei
aver a che fare con soggetti piuttosto estremi. C’è il Goblin dell’Uomo Ragno e
il Salvatore dell’Ultima tentazione di Cristo; il sergente idealista di Platoon
e il criminale psicotico di Cuore Selvaggio; il padre disturbato
dell’Anticristo di Lars von Trier e il vampiro attempato che fa la parte di
Nosferatu ne L’ombra del vampiro.
Quando Dafoe alza la cornetta, invece, mi
trovo a chiacchierare con una persona affabile e diretta. L’unico indizio che
lo riconduce ai personaggi interpretati sul grande schermo è il timbro caldo e
gutturale della voce. Per un attimo m’illudo di riuscire a scoprire finalmente
qualcosa dell’uomo che si nasconde dietro alle maschere da palcoscenico, ma nel
giro di poco capisco che è più difficile del previsto.
“Sono un attore, non una star”, sottolinea
subito Dafoe parlando al telefono da un albergo di Atene, dove è impegnato in
una commedia teatrale del regista Bob Wilson.“Preferisco farmi conoscere
attraverso il mio lavoro”.
Il che è perfettamente comprensibile, anche
ammirabile in un mondo ossessionato dell’esibizionismo e dal culto della
celebrità. Salvo renderlo un soggetto un po’ ermetico da intervistare.
L’attore originario del Wisconsin è sempre
stato più interessato alla sperimentazione che alla fama. E anche quando capita
che qualcuno lo riconosca per strada, tende a nascondersi dietro ai personaggi
interpretati.
“Di solito il ruolo per cui mi riconoscono
dice più a me della loro vita che a loro della mia”, dice l’artista 58enne. “Il
mio lavoro è più facile se mantengo un alone di mistero”.
Al cinema ha continuato ad alternare grandi
produzioni a progetti indipendenti, senza mai trascurare il teatro, dove negli
anni Settanta ha fondato la compagnia sperimentale Wooster insieme alla regista
Elisabeth LeCompte. Questo ne ha fatto una sorta di outsider rispetto al
circuito hollywoodiano, rendendolo anche più avverso a esporsi.
Dafoe teme che rivelare ciò che pensa possa
intaccare la sua libertà d’interpretare i ruoli più disparati. Per questo,
quando esco dal seminato dei discorsi su cinema e teatro, ricevo spesso
risposte volutamente generiche.
“Se parlassi delle mie idee politiche, ad
esempio, rischierei di condizionare il modo in cui un certo tipo di pubblico
vede i miei personaggi. Purtroppo oggi la cultura dello spettacolo è stata
fagocitata da quella dell’intrattenimento e del pettegolezzo. Certo, il mio
lato pragmatico sa che giocare a fare la star a volte può offrire delle
opportunità. Ma mi limito a sfruttare la fama come strumento di lavoro, non
come un fine in sé”.
Per aprire uno
spiraglio sulla sua persona ho dovuto quindi sbirciare dagli scorci che
emergevano casualmente. Gli ho chiesto dei personaggi sinistri che lo hanno
reso famoso sul grande schermo (“Sono attratto dalle situazioni estreme e dai
soggetti che vivono ai margini della società”); del suo rapporto con lo
star-system (“Che incubo!”); e dei progetti futuri, che lo vedranno tornare sul grande schermo con due
nuove collaborazioni con Abel Ferrara e Lars von Trier. Sotto la direzione del
primo, Dafoe interpreterà Pier Paolo Pasolini, ricostruendo l’ultimo giorno di
vita del poeta bolognese.
Di questo personaggio preferisce non parlare
troppo per evitare di creare condizionamenti. Pur conoscendo bene le opere di
Pasolini, vuole interpretare il personaggio nel modo più fisico possibile,
“come fossi un ballerino che si fida più del corpo che della testa”. Questo è
sempre stato il suo modo di affrontare i ruoli che gli sono stati affidati. Per
questo cerca di eseguire personalmente i suoi stunt, anche a costo di subirne
le conseguenze. Sul petto ha ancora i segni di quando il suo costume di Goblin
ha preso fuoco durante una scena di Spiderman e una cicatrice rimediata a
teatro mentre faceva acrobazie con un coltello. Per evitare di ricorrere a controfigure,
deve mantenere un fisico elastico e allenato. Ma piuttosto che frequentare la
palestra come molti suoi colleghi, preferisce praticare yoga.
“Lo faccio tutti i giorni da trent’anni”.
Nella collaborazione con Trier, invece,
affiancherà nuovamente Charlotte Gainsbourg per l’ultimo capitolo della
trilogia del regista danese sulla depressione, intitolato Nymphomaniac. Il
primo capitolo, Anticristo, aveva suscitato un vespaio di polemiche per le
scene di sesso esplicito e violento. E questo nuovo progetto promette
altrettanto, anche se Dafoe ha preferito scegliere un personaggio più defilato.
“Stavolta niente sesso, non voglio diventare
la figura di mezza età che si spoglia in ogni film”.
L’attore cerca sempre di evitare di ripetere
situazioni già vissute. Per fare bene il suo lavoro s’impone di trovare nuovi
stimoli che lo costringano ogni volta ad affrontare l’ignoto. Ma se nella vita
professionale preferisce fuggire dalla routine, in quella personale si trova a
fare il contrario.
“Pur essendo nomade, la mia vita privata è
abbastanza ripetitiva. Viaggio molto per lavoro, ma cerco sempre di avere mia
moglie al fianco. Lei è la mia casa e insieme abbiamo le nostre abitudini”.
La moglie è Giada Colagrande, regista
italiana di vent’anni più giovane, conosciuta nel 2004 a Roma dopo una
proiezione del primo lungometraggio realizzato da lei e intitolato Aprimi il
cuore. Poco dopo Dafoe è stato invitato a lavorare al secondo film della
cineasta abruzzese, che racconta della passione fra una giovane vedova e il
guardiano della casa del suo defunto amante, in cui l’attore americano è
protagonista insieme all’autrice. In breve, la scintilla nata sul set ha
contagiato la vita reale e circa un anno dopo, i due si sono sposati a New York
con una cerimonia civile cui erano presenti solo pochi intimi.
Quello che ha fatto scattare
la molla che ha portato Dafoe e Colagrande a giurarsi amore eterno in così poco
tempo, l’attore lo tiene ovviamente per sé, ignorando la mia domanda.
Sull’aspetto più impulsivo del gesto, invece, è disposto a concedere qualcosa:
“Non ne abbiamo parlato molto. Un giorno stavamo pranzando e ho chiesto a Giada
se voleva sposarmi. Ho chiamato in municipio e mi hanno spiegato che se fossimo
riusciti ad arrivare lì entro un’ora avremmo potuto sposarci il giorno dopo. Ci
siamo infilati in un taxi, abbiamo compilato le carte e il pomeriggio seguente
eravamo marito e moglie”.
Dafoe non si era mai sposato
prima, pur essendo stato legato per molti anni alla regista teatrale Elisabeth
LeCompte, con cui ha avuto un figlio, Jack. Come Colagrande, anche LeCompte è
stata sua compagna nel lavoro, oltre che nella vita privata. Nelle pause dal
grande schermo, Dafoe ha sempre lavorato con la compagnia teatrale che avevano
fondato insieme. Dopo la separazione, però, la relazione professionale si è
interrotta, ma questo non ha impedito a Dafoe di trovare alternative che lo
portassero a misurarsi in teatro, sua grande passione insieme al cinema. Questo
inverno porterà a New York insieme alla performer Marina Abramovic una piece
intitolata Vita e morte di Marina Abramovic che ha già presentato con successo
in varie città europee.
Quando non sono in giro per lavoro, i coniugi
Dafoe dividono il loro tempo fra Roma e New York e da qualche anno Willem è
anche diventato cittadino italiano. L’attore si dice grande appassionato del
Belpaese, ma quando gli chiedo cosa pensa della situazione attuale, si smarca
con una delle sue risposte generiche.
“Vedo un certo declino, ma questo è un
fenomeno comune a tutte le società occidentali, compresa quella americana”.
E quando provo a insistere chiedendogli se il
declino italiano l’abbia toccato personalmente, Dafoe si chiude a ricco: “Ho le
mie opinioni ma non sono ancora del tutto formate e non mi sento di
esprimerle”, conclude secco.
Forse con quest’ultima domanda mi sono spinto
troppo il là.
Pubblicato su L'Officiel Hommes Italia
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