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Photo by Gordon Matta-Clark |
Da sempre l’Italia attira intellettuali in
cerca d’ispirazione, curiosi di studiare le radici della civiltà occidentale.
Ma per un breve periodo a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta, la
tradizione del Grand Tour italiano ha attirato anche avanguardie dell’arte
mondiale in cerca di un pubblico pronto ad apprezzarle. Inizialmente, gli
esponenti dell’arte concettuale e minimalista americana faticavano ad avere
riconoscimento in patria e, appena potevano, venivano in Europa per trovare
galleristi e collezionisti disposti a finanziarli. Fra questi artisti c’era
Gordon Matta-Clark, “anarchitetto” diventato famoso per i suoi lavori in edifici
in demolizione, su cui interveniva inventando forme nuove con flessibili, seghe
e scalpelli.
Dopo aver completato con ottimi risultati la
facoltà di architettura alla Cornell University, dove si forma studiando le
teorie moderniste in voga all’epoca, Matta-Clark abbandona l’architettura tradizionale
sconfinando nell’arte: anziché progettare nuove strutture, scava, seziona e modifica
quelle già esistenti per creare nuove prospettive e ridare dignità e valore a
edifici abbandonati e decadenti. La natura radicale degli interventi di Matta-Clark,
però, rende difficile per l’artista trentenne trovare spazi e finanziamenti per
le sue opere. Il tutto è complicato dalla natura effimera dei lavori, sopravvissuti
a noi solo attraverso foto e video. Ma l’Italia di quegli anni fornisce
all’artista newyorkese diverse opportunità per ideare nuovi progetti.
Inoltre, Matta-Clark ha un rapporto speciale
con il nostro paese anche in virtù delle sue connessioni familiari. Il padre, il
pittore surrealista Roberto Sebastian Matta, possedette due case in Italia (una
a Panarea e una Tarquinia) ed ebbe due compagne italiane, una delle quali diede
a Gordon un fratellastro, Pablo Echaurren.
Non stupisce quindi che, nell’estate del 1973,
Matta-Clark sbarchi a Milano per realizzare uno dei suoi tipici
interventi in una fabbrica del quartiere Isola, intitolato Infraform.
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Photo by Gordon Matta-Clark |
“Ho avuto
subito la sensazione che avesse una determinazione particolare”, ricorda
Giorgio Colombo, fotografo d’arte contemporanea che aiutò l’artista americano a
documentare la sua prima opera milanese. “Mi hanno stupito le dimensioni e le
difficoltà tecniche che affrontava, spesso senza autorizzazione e in modo
veloce e rischioso prima o durante le fasi di demolizione degli edifici”.
La realizzazione di questo lavoro coincide
con il primo viaggio di Matta-Clark in Italia, invitato a Genova dal gallerista
Paolo Minetti per un altro progetto. Si tratta di A W-hole House: Roof Top Atrium
and Datum Cut, che viene realizzato sezionando il colmo del tetto di una casa
di Sestri.
Un paio
d’anni più tardi, il fondatore del gruppo Anarchitecture è di nuovo a Milano, su
invito di Salvatore Ala. Il gallerista meneghino aveva conosciuto Matta-Clark a New York, dove
andava regolarmente, attratto dal fermento artistico che si concentrava nel
quartiere di SoHo e di cui l’architetto era uno dei principali esponenti.
“A quell’epoca molti giovani artisti
americani venivano in Italia in cerca di riconoscimento e opportunità di
lavorare”, dice Ala. “Oltre a Matta-Clark, arrivarono anche Dan Flavin, Richard
Serra, Sol LeWitt, Joseph Kosuth, John Baldessarri. Tutta gente oggi venerata
ma che allora faticava a essere capita negli Stati Uniti”.
A Milano, Ala
dà carta bianca a Matta Clark e questo gli propone di rimuovere una parte del pavimento della sua
galleria in via Mameli. Ma l’esperimento non va come sperato.
“Il cemento si sbriciolava e Gordon dovette
rinunciare a metà dell’opera”, ricorda Ala. “Suo padre venne a trovarlo mentre
lavorava e, vedendo come aveva ridotto la mia galleria, disse che ero più matto
di suo figlio”.
L’artista finisce con l’installare un filo
d'acciaio che, partendo dal cortile d'ingresso della galleria di Ala, attraversa
i vetri delle finestre e tutte le pareti delle stanze.
Nello stesso periodo, Matta-Clark progetta un
intervento in una fabbrica occupata di Sesto San Giovanni.
“Sono venuto con l’idea di trasformare una
fabbrica abbandonata da un brutto ricordo in qualcosa di alternativo e vitale”,
scrive illustrando il progetto dell’Arco del Trionfo dei Lavoratori.
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Photo by Gordon Matta-Clark |
L’artista è affascinato dalle contestazioni
politiche dell’Italia di quegli anni. Fin dall’inizio, i suoi lavori mostrano una
forte valenza sociale e un’attenzione ai problemi delle classi più emarginate. Nonostante
i buoni intenti, però, convincere gli attivisti politici e gli operai che
avevano occupato la fabbrica di Sesto San Giovanni a lasciarlo lavorare non è facile.
“Molti degli occupanti consideravano Gordon semplicemente
un matto che voleva tagliare in due il loro edificio”, ricorda la vedova
dell’artista, Jane Crawford.
L’idea alla fine è destinata a naufragare a
causa dell’intervento della polizia, che sgombera l’area occupata prima che
Matta-Clark abbia il tempo di intervenire.
Durante i
suoi soggiorni italiani, l’artista tiene anche una sorta di diario visivo, soprattutto su forme
di architettura spontanea che incontra fuori dai centri urbani: piccole case
coloniche, capanni e rifugi sparsi in campagna.
“Gli piaceva
vagare a piedi per i campi e studiare quelle strutture che i contadini
costruiscono per necessità, usando materiali semplici e riciclando quel che
possono, come le automobili adibite a depositi per gli attrezzi o le vasche da
bagno trasformate in piccoli santuari”, spiega Crawford, che lo accompagnò
nell’escursione sull’Appennino ligure.
Questi appunti
formano un progetto sulla non-monumentalità, rimasto incompiuto a causa di un tumore
fulminante che stroncò l’artista all’età di trentacinque anni. Si tratta
di una serie di fotografie raccolte perlopiù durante un viaggio nelle campagne
fra Piemonte e Liguria.
“L’Italia fu
molto importante per Gordon e influenzò profondamente il suo linguaggio
artistico”, conclude Crawford. “Il dibattito politico italiano rafforzò il suo
desiderio di dare all’arte una dimensione sociale e il movimento dell’Arte
Povera lo ispirò nell’uso di materiali di recupero”.
Pubblicato su Casa Vogue
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