mercoledì 16 ottobre 2013

Gordon Matta-Clark: the Italian Grand Tour


Photo by Gordon Matta-Clark
Da sempre l’Italia attira intellettuali in cerca d’ispirazione, curiosi di studiare le radici della civiltà occidentale. Ma per un breve periodo a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta, la tradizione del Grand Tour italiano ha attirato anche avanguardie dell’arte mondiale in cerca di un pubblico pronto ad apprezzarle. Inizialmente, gli esponenti dell’arte concettuale e minimalista americana faticavano ad avere riconoscimento in patria e, appena potevano, venivano in Europa per trovare galleristi e collezionisti disposti a finanziarli. Fra questi artisti c’era Gordon Matta-Clark, “anarchitetto” diventato famoso per i suoi lavori in edifici in demolizione, su cui interveniva inventando forme nuove con flessibili, seghe e scalpelli.

Dopo aver completato con ottimi risultati la facoltà di architettura alla Cornell University, dove si forma studiando le teorie moderniste in voga all’epoca, Matta-Clark abbandona l’architettura tradizionale sconfinando nell’arte: anziché progettare nuove strutture, scava, seziona e modifica quelle già esistenti per creare nuove prospettive e ridare dignità e valore a edifici abbandonati e decadenti. La natura radicale degli interventi di Matta-Clark, però, rende difficile per l’artista trentenne trovare spazi e finanziamenti per le sue opere. Il tutto è complicato dalla natura effimera dei lavori, sopravvissuti a noi solo attraverso foto e video. Ma l’Italia di quegli anni fornisce all’artista newyorkese diverse opportunità per ideare nuovi progetti.
Inoltre, Matta-Clark ha un rapporto speciale con il nostro paese anche in virtù delle sue connessioni familiari. Il padre, il pittore surrealista Roberto Sebastian Matta, possedette due case in Italia (una a Panarea e una Tarquinia) ed ebbe due compagne italiane, una delle quali diede a Gordon un fratellastro, Pablo Echaurren.
Non stupisce quindi che, nell’estate del 1973, Matta-Clark sbarchi a Milano per realizzare uno dei suoi tipici interventi in una fabbrica del quartiere Isola, intitolato Infraform.
Photo by Gordon Matta-Clark
“Ho avuto subito la sensazione che avesse una determinazione particolare”, ricorda Giorgio Colombo, fotografo d’arte contemporanea che aiutò l’artista americano a documentare la sua prima opera milanese. “Mi hanno stupito le dimensioni e le difficoltà tecniche che affrontava, spesso senza autorizzazione e in modo veloce e rischioso prima o durante le fasi di demolizione degli edifici”.
La realizzazione di questo lavoro coincide con il primo viaggio di Matta-Clark in Italia, invitato a Genova dal gallerista Paolo Minetti per un altro progetto. Si tratta di A W-hole House: Roof Top Atrium and Datum Cut, che viene realizzato sezionando il colmo del tetto di una casa di Sestri.
Un paio d’anni più tardi, il fondatore del gruppo Anarchitecture è di nuovo a Milano, su invito di Salvatore Ala. Il gallerista meneghino aveva conosciuto Matta-Clark a New York, dove andava regolarmente, attratto dal fermento artistico che si concentrava nel quartiere di SoHo e di cui l’architetto era uno dei principali esponenti.
“A quell’epoca molti giovani artisti americani venivano in Italia in cerca di riconoscimento e opportunità di lavorare”, dice Ala. “Oltre a Matta-Clark, arrivarono anche Dan Flavin, Richard Serra, Sol LeWitt, Joseph Kosuth, John Baldessarri. Tutta gente oggi venerata ma che allora faticava a essere capita negli Stati Uniti”.
A Milano, Ala dà carta bianca a Matta Clark e questo gli propone di rimuovere una parte del pavimento della sua galleria in via Mameli. Ma l’esperimento non va come sperato.
“Il cemento si sbriciolava e Gordon dovette rinunciare a metà dell’opera”, ricorda Ala. “Suo padre venne a trovarlo mentre lavorava e, vedendo come aveva ridotto la mia galleria, disse che ero più matto di suo figlio”.
L’artista finisce con l’installare un filo d'acciaio che, partendo dal cortile d'ingresso della galleria di Ala, attraversa i vetri delle finestre e tutte le pareti delle stanze.
Nello stesso periodo, Matta-Clark progetta un intervento in una fabbrica occupata di Sesto San Giovanni.
“Sono venuto con l’idea di trasformare una fabbrica abbandonata da un brutto ricordo in qualcosa di alternativo e vitale”, scrive illustrando il progetto dell’Arco del Trionfo dei Lavoratori.
Photo by Gordon Matta-Clark
L’artista è affascinato dalle contestazioni politiche dell’Italia di quegli anni. Fin dall’inizio, i suoi lavori mostrano una forte valenza sociale e un’attenzione ai problemi delle classi più emarginate. Nonostante i buoni intenti, però, convincere gli attivisti politici e gli operai che avevano occupato la fabbrica di Sesto San Giovanni a lasciarlo lavorare non è facile.
“Molti degli occupanti consideravano Gordon semplicemente un matto che voleva tagliare in due il loro edificio”, ricorda la vedova dell’artista, Jane Crawford.
L’idea alla fine è destinata a naufragare a causa dell’intervento della polizia, che sgombera l’area occupata prima che Matta-Clark abbia il tempo di intervenire.
Durante i suoi soggiorni italiani, l’artista tiene anche una sorta di diario visivo, soprattutto su forme di architettura spontanea che incontra fuori dai centri urbani: piccole case coloniche, capanni e rifugi sparsi in campagna.
“Gli piaceva vagare a piedi per i campi e studiare quelle strutture che i contadini costruiscono per necessità, usando materiali semplici e riciclando quel che possono, come le automobili adibite a depositi per gli attrezzi o le vasche da bagno trasformate in piccoli santuari”, spiega Crawford, che lo accompagnò nell’escursione sull’Appennino ligure.
Questi appunti formano un progetto sulla non-monumentalità, rimasto incompiuto a causa di un tumore fulminante che stroncò l’artista all’età di trentacinque anni. Si tratta di una serie di fotografie raccolte perlopiù durante un viaggio nelle campagne fra Piemonte e Liguria.
“L’Italia fu molto importante per Gordon e influenzò profondamente il suo linguaggio artistico”, conclude Crawford. “Il dibattito politico italiano rafforzò il suo desiderio di dare all’arte una dimensione sociale e il movimento dell’Arte Povera lo ispirò nell’uso di materiali di recupero”.

Pubblicato su Casa Vogue

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