“La cosa peggiore che può succedere in
questo mestiere è che ti chiedano d’interpretare un personaggio normale”.
Eugenio Franceschini non ha dubbi. Reciterebbe chiunque sul palcoscenico, anche
Berlusconi, il politico che l’attore veneto sente più lontano dai suoi ideali.
Tutto purché non gli affidino un personaggio ordinario.
“Il fascino della professione sta nel
confrontarsi con visioni diverse attraverso i personaggi interpretati”, dice al
telefono dalla sua casa di Verona. “L’identità personale si sgretola e si
riconoscono le mille sfaccettature del mondo, ma se il personaggio è noioso…”.
Franceschini ha 22 anni, ma parla come un
attore navigato. D’altronde sul palco è abituato a starci da quando era
piccolissimo. A quattro anni i genitori, entrambi cantastorie e teatranti di
strada, lo portavano già in giro per le piazze d’Italia in cui lavoravano.
Contagiato dalla magia del teatro e affascinato dalla figura di Arlecchino –
“la maschera che insegna tutto su fame e ricchezza” – Franceschini decide di
prendere una via leggermente diversa da quella di mamma e papà. S’iscrive al
Centro Sperimentale di Cinematografia a Roma e fa gavetta passando per le
pubblicità e le compagnie stabili di teatro, approdando al cinema con registi
affermati come Paolo Genovese e Carlo Vanzina. Questo lo mette in contatto con
un modo differente di fare l’attore rispetto a quello dei genitori: più
professionale, ma anche più commerciale e meno spontaneo. Per questo, quando si
sente drenato dalla routine – i provini, le attese, le repliche che rischiano
di diventare meccaniche – Franceschini torna sempre con la mente al teatro di
strada. In particolare al momento in cui, ancora bimbo, la madre lo spingeva in
scena e lui si trovava davanti al padre travestito da Barone di Münchhausen,
nell’ultima scena della commedia.
“In quel ricordo rivivo la magia del
palcoscenico e ritrovo la passione”.
Simone Riccioni ha cominciato a recitare
per sfida. Quando era ancora al liceo, un professore l’ha sentito cantare
durante la ricreazione e gli ha proposto di partecipare a un musical
organizzato dalla scuola. E quando lui ha snobbato la proposta, definendo il
canto “roba da femminucce”, l’insegnate l’ha provocato dicendogli che, in
realtà, non voleva farlo perché non era capace.
“E’ stato il modo migliore per
interessarmi”, ricorda l’attore nato in Uganda da genitori italiani impegnati
in una missione di cooperazione. Lo spirito competitivo non gli è mai mancato.
L’attore venticinquenne è sempre stato uno sportivo e ai tempi giocava a basket
a livello semiprofessionale, sognando di entrare in Nba. Dopo la prima recita
ha continuato a frequentare la compagnia della scuola. E quando, finito il
liceo a Macerata, ha cominciato a darsi malato agli allenamenti di
pallacanestro per andare ai corsi di recitazione, ha capito che “la roba da
femminucce” gli era definitivamente entrata nel sangue.
Sua madre, però, era preoccupata dalla
precarietà del mestiere e insisteva affinché il figlio di laureasse. Riccioni
si è iscritto alla facoltà di scienze motorie a Milano e si è diplomato in meno
di tre anni, per dimostrarle la sua serietà. Poi si è messo a studiare
recitazione con coach privati e dopo 70 pubblicità, 10 corti e un film da
protagonista firmato da Federico Moccia (Universitari), si sente finalmente a
un buon punto della carriera. Nonostante questo, però, le preoccupazioni della
madre risultano ancora attuali.
“Finché non sei davvero affermato, va bene
se fai un film l’anno”.
Nel frattempo, gli emergenti come lui
devono continuare a studiare e lavorare per mantenersi e pagare i corsi.
“Con l’aggravante che, in Italia, farsi
vedere in giro a fare lavoretti qualsiasi è considerato squalificante per un
attore”.
Contrariamente alla maggior parte dei suoi
colleghi, Gabriele Rendina non ha mai sognato di ottenere una parte in un film.
La sua esperienza di recitazione nasce attraverso la musica. Più che attore,
infatti, il giovane laureando in filosofia si definisce compositore di musica
classica contemporanea. E dopo nove anni di studi presso il conservatorio Santa
Cecilia di Roma è facile intuire il perché. La prima occasione di apparire
davanti alle telecamere gli si è presentata tre anni fa, quando in Rai
cercavano un musicista disposto a fare da comparsa in uno sceneggiato
televisivo. Ed è continuata quando lo stesso agente che aveva seguito Rendina
in quell’occasione ha saputo che Gianni Amelio era in caccia di un musicista
per interpretare la parte del figlio di Antonio Albanese nella commedia
presentata allo scorso festival di Venezia, L’intrepido.
“Quando mi hanno chiamato stavo scrivendo
un pezzo per l’Auditorium di Roma e non pensavo minimamente alla possibilità di
fare un film”, ammette l’attore 23enne.
Così, quando si è trovato sul set, Rendina
ha dovuto far appello a tutte le capacità di adattamento imparate nei lunghi
viaggi al seguito della madre, figlia di diplomatici, per raccapezzarsi e
imparare velocemente a muoversi davanti all’obiettivo.
“Sono stati Amelio e Albanese a
indirizzarmi e formarmi in presa diretta”.
Da bravo musicista, Rendina ha trovato
anche il modo sfruttare l’esperienza sul set per imparare uno strumento nuovo.
Oltre a comporre, suona il violino. Ma il suo personaggio cinematografico è un
sassofonista e la produzione gli ha messo a disposizione uno dei più bravi maestri
italiani per un corso accelerato.
“E’ stata un’esperienza magnifica e mi ha
dato lo spunto per integrare la recitazione nel mio mondo, attraverso lo studio
delle performance vocali e dell’avanguardia degli Anni Sessanta”.
Il palcoscenico lo frequenta da sempre per
via del padre. Ma l’ha conosciuto da vicino quando aveva appena 14 anni e papà
Michele gli ha affidato una piccola parte in Romanzo Criminale. Brenno Placido,
però, il suo vero debutto lo considera il film girato con Marco Bellocchio
sette anni dopo e intitolato La bella addormentata.
“E’ stata la prima volta che un regista mi
ha scelto in modo indipendente dopo una sfilza di provini”, dice l’attore
ventiduenne, oggi noto al pubblico italiano più che altro per il suo ruolo nella
fiction Rai, Tutti pazzi per amore.
Con un padre regista e attore, una madre
attrice (Simonetta Stefanelli) e una sorella che canta e recita (Violante),
Brenno è il prototipo del figlio d’arte. Questo l’ha immunizzato contro il
richiamo di fama e mondanità. Ma gli ha lasciato poche speranze di sfuggire al
fascino del palcoscenico.
“Ho scelto questo mestiere senza pensarci
troppo, come un modo per avvicinarmi a me stesso, non un mezzo per raggiungere
la notorietà”.
Portare il suo cognome, in Italia rappresenta
indubbiamente un vantaggio per i contatti e l’appoggio che possono arrivare, ma
ha anche i suoi lati negativi.
“Spesso fra i colleghi incontro un certo
scetticismo a causa della mia storia privata. Lo posso capire, ma non posso
cambiare il mio passato”.
Per questo all’inizio ha preferito
presentarsi come Marco Brenno, nome d’arte che mascherava le sue ascendenze.
Dopo anni di gavetta fra televisione e teatro, però, anche questa timidezza è
scemata e per il primo film sul grande schermo ha preferito usare il suo vero
nome.
“Tocca solo lavorare di più per dimostrare
di meritarmi fino in fondo le parti che mi vengono affidate”.
MOISE’ CURIA
A quattro anni Moisè Curia scrive su un
rotolo di carta igienica che vuole fare l’attore. E a quattordici scappa
abbandonando la famiglia nella Calabria natia per andare a Roma a realizzare il
suo sogno. Le vie intorno a piazza del Popolo diventano la sua casa, con i
divani di amici e parenti come rifugi temporanei. In strada impara a fare il
giocoliere, il mimo e il mangiafuoco, affiancando gli artisti che incontra per
caso. E’ un inizio duro, ma Curia è abituato a non mollare.
“In famiglia sappiamo cosa significa
soffrire la fame. Questo mi ha permesso di tenere duro senza spaventarmi”, dice
al telefono da Milano.
Dopo qualche anno vissuto all’addiaccio
nella capitale, viene notato da un’insegnate di teatro che gli consiglia
d’iscriversi a una scuola di arte drammatica. Ma il primo impatto con il teatro
tradizionale è piuttosto traumatico.
“Non ero abituato a rispettare le regole e
i tempi del palcoscenico. In strada l’unico obiettivo era catturarne
l’attenzione del pubblico più a lungo possibile”.
Studiare, però, non è mai stato un
problema. Conclusa l’accademia Eutheca di Roma s’iscrive al Centro sperimentale
di cinematografia e comincia a fare la gavetta sui set di piccoli film
indipendenti. Fino a quando arriva il provino per il vero debutto sul grande
schermo con La buca, pellicola firmata da Daniele Ciprì in uscita quest’anno.
Nel frattempo continua anche a lavorare in
teatro e vince un premio per l’interpretazione di un monologo tratto dal libro
di Baricco, Novecento. Durante una replica della rappresentazione, fra il
pubblico Curia scorge il padre muratore, venuto senza dir nulla dalla Calabria
per vederlo recitare.
“Alla fine piangeva. Mi ha confessato che
vedermi realizzare il mio sogno gli ha dato una gioia immensa. E’ bastato
questo per ripagarmi di tutti i sacrifici fatti in passato”.
Pubblicato su Hommes Officiel Italia
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