martedì 20 maggio 2014

Spiriti Liberi: cinque giovani attori a confronto

La precarietà del lavoro è considerata una delle piaghe del nostro tempo, con i suoi corollari d’instabilità e insicurezza. C’è un mestiere, però, che precario lo è sempre stato, eppure continua ad attirare gente di tutti i tipi. Ogni anno, anche in periodi di crisi come questo, sono centinaia i giovani che decidono d’imboccare la strada della recitazione nella speranza di diventare i nuovi Scamarcio o Favino, a seconda dei gusti. Molti mollano, alcuni resistono e ce la fanno. Fra loro abbiamo scelto cinque attori emergenti che potrebbero essere i nuovi volti del cinema italiano di domani. Sono molto diversi fra loro, ma hanno una cosa in comune: sono sognatori, spiriti liberi che inseguono i propri ideali.
  
EUGENIO FRANCESCHINI
“La cosa peggiore che può succedere in questo mestiere è che ti chiedano d’interpretare un personaggio normale”. Eugenio Franceschini non ha dubbi. Reciterebbe chiunque sul palcoscenico, anche Berlusconi, il politico che l’attore veneto sente più lontano dai suoi ideali. Tutto purché non gli affidino un personaggio ordinario.
“Il fascino della professione sta nel confrontarsi con visioni diverse attraverso i personaggi interpretati”, dice al telefono dalla sua casa di Verona. “L’identità personale si sgretola e si riconoscono le mille sfaccettature del mondo, ma se il personaggio è noioso…”.
Franceschini ha 22 anni, ma parla come un attore navigato. D’altronde sul palco è abituato a starci da quando era piccolissimo. A quattro anni i genitori, entrambi cantastorie e teatranti di strada, lo portavano già in giro per le piazze d’Italia in cui lavoravano. Contagiato dalla magia del teatro e affascinato dalla figura di Arlecchino – “la maschera che insegna tutto su fame e ricchezza” – Franceschini decide di prendere una via leggermente diversa da quella di mamma e papà. S’iscrive al Centro Sperimentale di Cinematografia a Roma e fa gavetta passando per le pubblicità e le compagnie stabili di teatro, approdando al cinema con registi affermati come Paolo Genovese e Carlo Vanzina. Questo lo mette in contatto con un modo differente di fare l’attore rispetto a quello dei genitori: più professionale, ma anche più commerciale e meno spontaneo. Per questo, quando si sente drenato dalla routine – i provini, le attese, le repliche che rischiano di diventare meccaniche – Franceschini torna sempre con la mente al teatro di strada. In particolare al momento in cui, ancora bimbo, la madre lo spingeva in scena e lui si trovava davanti al padre travestito da Barone di Münchhausen, nell’ultima scena della commedia.
“In quel ricordo rivivo la magia del palcoscenico e ritrovo la passione”. 

SIMONE RICCIONI
Simone Riccioni ha cominciato a recitare per sfida. Quando era ancora al liceo, un professore l’ha sentito cantare durante la ricreazione e gli ha proposto di partecipare a un musical organizzato dalla scuola. E quando lui ha snobbato la proposta, definendo il canto “roba da femminucce”, l’insegnate l’ha provocato dicendogli che, in realtà, non voleva farlo perché non era capace.
“E’ stato il modo migliore per interessarmi”, ricorda l’attore nato in Uganda da genitori italiani impegnati in una missione di cooperazione. Lo spirito competitivo non gli è mai mancato. L’attore venticinquenne è sempre stato uno sportivo e ai tempi giocava a basket a livello semiprofessionale, sognando di entrare in Nba. Dopo la prima recita ha continuato a frequentare la compagnia della scuola. E quando, finito il liceo a Macerata, ha cominciato a darsi malato agli allenamenti di pallacanestro per andare ai corsi di recitazione, ha capito che “la roba da femminucce” gli era definitivamente entrata nel sangue.
Sua madre, però, era preoccupata dalla precarietà del mestiere e insisteva affinché il figlio di laureasse. Riccioni si è iscritto alla facoltà di scienze motorie a Milano e si è diplomato in meno di tre anni, per dimostrarle la sua serietà. Poi si è messo a studiare recitazione con coach privati e dopo 70 pubblicità, 10 corti e un film da protagonista firmato da Federico Moccia (Universitari), si sente finalmente a un buon punto della carriera. Nonostante questo, però, le preoccupazioni della madre risultano ancora attuali.
“Finché non sei davvero affermato, va bene se fai un film l’anno”.
Nel frattempo, gli emergenti come lui devono continuare a studiare e lavorare per mantenersi e pagare i corsi.
“Con l’aggravante che, in Italia, farsi vedere in giro a fare lavoretti qualsiasi è considerato squalificante per un attore”.

GABRIELE RENDINA
Contrariamente alla maggior parte dei suoi colleghi, Gabriele Rendina non ha mai sognato di ottenere una parte in un film. La sua esperienza di recitazione nasce attraverso la musica. Più che attore, infatti, il giovane laureando in filosofia si definisce compositore di musica classica contemporanea. E dopo nove anni di studi presso il conservatorio Santa Cecilia di Roma è facile intuire il perché. La prima occasione di apparire davanti alle telecamere gli si è presentata tre anni fa, quando in Rai cercavano un musicista disposto a fare da comparsa in uno sceneggiato televisivo. Ed è continuata quando lo stesso agente che aveva seguito Rendina in quell’occasione ha saputo che Gianni Amelio era in caccia di un musicista per interpretare la parte del figlio di Antonio Albanese nella commedia presentata allo scorso festival di Venezia, L’intrepido.
“Quando mi hanno chiamato stavo scrivendo un pezzo per l’Auditorium di Roma e non pensavo minimamente alla possibilità di fare un film”, ammette l’attore 23enne.
Così, quando si è trovato sul set, Rendina ha dovuto far appello a tutte le capacità di adattamento imparate nei lunghi viaggi al seguito della madre, figlia di diplomatici, per raccapezzarsi e imparare velocemente a muoversi davanti all’obiettivo.
“Sono stati Amelio e Albanese a indirizzarmi e formarmi in presa diretta”.
Da bravo musicista, Rendina ha trovato anche il modo sfruttare l’esperienza sul set per imparare uno strumento nuovo. Oltre a comporre, suona il violino. Ma il suo personaggio cinematografico è un sassofonista e la produzione gli ha messo a disposizione uno dei più bravi maestri italiani per un corso accelerato.
“E’ stata un’esperienza magnifica e mi ha dato lo spunto per integrare la recitazione nel mio mondo, attraverso lo studio delle performance vocali e dell’avanguardia degli Anni Sessanta”.

BRENNO PLACIDO
Il palcoscenico lo frequenta da sempre per via del padre. Ma l’ha conosciuto da vicino quando aveva appena 14 anni e papà Michele gli ha affidato una piccola parte in Romanzo Criminale. Brenno Placido, però, il suo vero debutto lo considera il film girato con Marco Bellocchio sette anni dopo e intitolato La bella addormentata.
“E’ stata la prima volta che un regista mi ha scelto in modo indipendente dopo una sfilza di provini”, dice l’attore ventiduenne, oggi noto al pubblico italiano più che altro per il suo ruolo nella fiction Rai, Tutti pazzi per amore.
Con un padre regista e attore, una madre attrice (Simonetta Stefanelli) e una sorella che canta e recita (Violante), Brenno è il prototipo del figlio d’arte. Questo l’ha immunizzato contro il richiamo di fama e mondanità. Ma gli ha lasciato poche speranze di sfuggire al fascino del palcoscenico.
“Ho scelto questo mestiere senza pensarci troppo, come un modo per avvicinarmi a me stesso, non un mezzo per raggiungere la notorietà”.
Portare il suo cognome, in Italia rappresenta indubbiamente un vantaggio per i contatti e l’appoggio che possono arrivare, ma ha anche i suoi lati negativi.
“Spesso fra i colleghi incontro un certo scetticismo a causa della mia storia privata. Lo posso capire, ma non posso cambiare il mio passato”.
Per questo all’inizio ha preferito presentarsi come Marco Brenno, nome d’arte che mascherava le sue ascendenze. Dopo anni di gavetta fra televisione e teatro, però, anche questa timidezza è scemata e per il primo film sul grande schermo ha preferito usare il suo vero nome.
“Tocca solo lavorare di più per dimostrare di meritarmi fino in fondo le parti che mi vengono affidate”.  

MOISE’ CURIA
A quattro anni Moisè Curia scrive su un rotolo di carta igienica che vuole fare l’attore. E a quattordici scappa abbandonando la famiglia nella Calabria natia per andare a Roma a realizzare il suo sogno. Le vie intorno a piazza del Popolo diventano la sua casa, con i divani di amici e parenti come rifugi temporanei. In strada impara a fare il giocoliere, il mimo e il mangiafuoco, affiancando gli artisti che incontra per caso. E’ un inizio duro, ma Curia è abituato a non mollare.
“In famiglia sappiamo cosa significa soffrire la fame. Questo mi ha permesso di tenere duro senza spaventarmi”, dice al telefono da Milano.
Dopo qualche anno vissuto all’addiaccio nella capitale, viene notato da un’insegnate di teatro che gli consiglia d’iscriversi a una scuola di arte drammatica. Ma il primo impatto con il teatro tradizionale è piuttosto traumatico.
“Non ero abituato a rispettare le regole e i tempi del palcoscenico. In strada l’unico obiettivo era catturarne l’attenzione del pubblico più a lungo possibile”.
Studiare, però, non è mai stato un problema. Conclusa l’accademia Eutheca di Roma s’iscrive al Centro sperimentale di cinematografia e comincia a fare la gavetta sui set di piccoli film indipendenti. Fino a quando arriva il provino per il vero debutto sul grande schermo con La buca, pellicola firmata da Daniele Ciprì in uscita quest’anno.
Nel frattempo continua anche a lavorare in teatro e vince un premio per l’interpretazione di un monologo tratto dal libro di Baricco, Novecento. Durante una replica della rappresentazione, fra il pubblico Curia scorge il padre muratore, venuto senza dir nulla dalla Calabria per vederlo recitare.
“Alla fine piangeva. Mi ha confessato che vedermi realizzare il mio sogno gli ha dato una gioia immensa. E’ bastato questo per ripagarmi di tutti i sacrifici fatti in passato”. 

Pubblicato su Hommes Officiel Italia

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