![]() |
Foto Pablo Arroyo |
“L’esistenza fra le quattro mura bianche
del mio studio di Anversa è piuttosto noiosa e ripetitiva”, ammette Van De
Velde al telefono dalla città fiamminga. “Attraverso i miei quadri mi diverto a
immaginare cosa avrei potuto fare se non fossi un artista”.
Per creare i grandi disegni a carboncino
che l’hanno reso famoso, Van de Velde ha cominciato ispirandosi a immagini
recuperate in vecchie riviste, creando una sorta di autobiografia della vita
che non ha mai vissuto.
Il pittore colleziona informazioni e dati sui protagonisti dei suoi quadri, cercando di immedesimarsi il più possibile, quasi fosse un attore che si prepara a interpretare una parte: prima di disegnare se stesso nei panni di Bobby Fischer, Van De Velde si è recato in Islanda per vedere i luoghi dove avvenne la mitica vittoria del 1972 contro il russo Boris Spassky, che trasformò Fisher nel più grande scacchista di tutti i tempi.
Il pittore colleziona informazioni e dati sui protagonisti dei suoi quadri, cercando di immedesimarsi il più possibile, quasi fosse un attore che si prepara a interpretare una parte: prima di disegnare se stesso nei panni di Bobby Fischer, Van De Velde si è recato in Islanda per vedere i luoghi dove avvenne la mitica vittoria del 1972 contro il russo Boris Spassky, che trasformò Fisher nel più grande scacchista di tutti i tempi.
Inizialmente i protagonisti dei suoi
quadri avevano sembianze diverse, ma col tempo sono divenuti sempre più simili
all’autore, rendendo l’immedesimazione ancora più completa.
“Quando incontravo un personaggio barbuto
era difficile identificarmi, visto che a me la barba non cresce. Quindi ho
cominciato a usare me stesso come modello”.
Per disegnare i suoi carboncini, oggi Van
de Velde non si limita a trarre ispirazione da immagini trovate su giornali o
su internet ma produce fotografie originali, creando le atmosfere e sostituendo
i personaggi originali con sé e i suoi amici.
“E’ come costruire un set cinematografico,
ma il risultato è un’immagine fissa anziché in movimento”.
Scorrendo i lavori di Van De Velde, si ha
l’impressione di trovarsi davanti al racconto autobiografico di un giramondo
dai mille volti. Nei disegni si nota una certa evoluzione nella vita
dell’autore, ma non fino a decifrarne gli stati d’animo.
“Sono diverse manifestazioni del mio
essere e del mio sentire, ma il protagonista è sempre romanzato”.
Il desiderio di avere un’esistenza
avventurosa deriva in parte dall’idea che un artista debba necessariamente
essere un personaggio eccentrico, con una vita al di fuori dal comune. Poco
prima di iscriversi all’accademia d’arte, quando era ancora minorenne, Van De
Velde vide il film su Jean-Michel Basquiat diretto da Julian Schnabel. Pur
riconoscendo che la pellicola era frutto di una visione edulcorata della vita
del pittore eroinomane, l’artista belga è stato fortemente influenzato da
questa percezione, al punto da proiettarla su di sé.
“Vengo da una famiglia normale, con un
padre ingegnere e una madre insegnante. Ho avuto un’adolescenza felice ma
ordinaria, fatta di amici, skateboard e qualche spinello. Per anni ho faticato
a considerarmi un artista e per questo m’immedesimo con personaggi particolari,
trasformandoli nei protagonisti dei miei lavori”.
Sotto questa voglia romantica di
avventura, in realtà, si nasconde un uomo abitudinario che non ama viaggiare e
tende a frequentare gli stessi posti. Van De Velde non cucina e mangia sempre
in un caffè vicino al suo atelier. Qualsiasi amico voglia incontrarlo, sa dove
trovarlo all’ora dei pasti.
“Sono un avventuriero fifone: amo
fantasticare di peripezie incredibili ma sono troppo spaventato per compierle realmente”.
A parte qualche partita a tennis o a
pingpong sul tavolo verde sistemato nel suo studio, la vita di Van De Velde
sembra interamente votata alla produzione della sua arte. Qualche tempo fa è
stato invitato ad andare alle Hawaii a lavorare qualche mese. Il suo gallerista
gli ha procurato uno spazio sull’isola e si aspettava che la location insolita
potesse indurlo a produrre una nuova serie ispirata magari agli atleti che
sfidano le onde con i loro surf. L’artista belga, invece, ha continuato a fare
i suoi lavori di sempre.
“Disegnare in uno studio in Belgio o alle
Hawaii per me è lo stesso: la differenza sta solo nel clima”.
Gli stimoli esterni non gli interessano.
Preferisce l’isolamento e la monotonia per scatenare la sua creatività
interiore.
Inizialmente la scultura era il suo medium
d’elezione. Quando ancora studiava all’Accademia d’arte era affascinato dalle
opere di Rodin e dal modo in cui il maestro francese riusciva ad animare la
materia inerte. Poi ha capito di essere troppo pigro per lavorare con pietre e
metalli.
“La scultura è un medium molto fisico e
difficile da realizzare in solitudine. Il disegno invece è più semplice e
democratico: costa meno e può essere eseguito senza bisogno di assistenza o
materiali particolari”.
Rispetto alla pittura, il disegno è spesso
considerato marginale, essendo usato dagli artisti per eseguire bozzetti e
studi preparatori. Nel mercato delle opere d’arte, ad esempio, è difficile che
una composizione grafica raggiunga le cifre di un olio o un acquerello. Ed è
proprio questa secondarietà ad affascinare Van De Velde.
“Nel disegno c’è più libertà concettuale.
Non ti devi necessariamente confrontare con i maestri della storia della
pittura come Van Eyck o Rubens”.
Van De Velde ha cominciato realizzando formati
piuttosto piccoli per poi crescere nel tempo fino a raggiungere e superare le
dimensioni naturali, per dare l’opportunità agli spettatori di immergersi nelle
atmosfere chiaro scure che compongono le sue opere. Questo, però, l’ha
costretto a passare dalla carta alla tela: oltre una certa grandezza, la prima
diventa troppo delicata da trasportare e conservare.
“Mi diverte realizzare opere di grande
formato, ma può essere piuttosto meccanico. Quando ci sono parti ripetitive o
grandi spazi da riempire col carboncino, spesso lavoro ascoltando un
audiolibro”.
Anche l’assenza di colori comincia a
stargli stretta. A volte Van De Velde vorrebbe aggiungere tonalità diverse al
bianco e nero imposto dal carboncino, ma non è ancora riuscito a trovare un
modo soddisfacente di farlo. Ci prova sistematicamente una volta al mese, ma
non viene mai come vorrebbe. E quindi continua a buttare via i lavori.
Come le dimensioni dei suoi quadri, pure
le didascalie che li accompagnano sono andate aumentando. All’inizio erano poco
più di un titolo. Da quando collabora con un amico scrittore, però, la parte
scritta si è allungata, divenendo parte integrante dell’opera.
Van De Velde ama l’idea di coinvolgere
altre persone nel suo lavoro. Nonostante riconosca l’utilità della solitudine
per stimolare la sua creatività, spesso soffre di questa condizione. Da quando
ha cominciato a produrre le immagini a cui s’ispirano i suoi disegni, però, ha
trovato il modo di dare un senso alle collaborazioni. Ci sono persone che lo
aiutano con la fotografia, altri che gli danno una mano per realizzare il set,
le luci o i costumi. Il fatto di lavorare a più mani gli ha fatto anche tornare
voglia di dedicarsi alla scultura. E per la prossima mostra che terrà in
autunno a Berlino sta pensando di installare i set usati per la preparazione
dei disegni.
“Dovrò rispolverare le tecniche imparate a
scuola quando facevo scultura. Ma questa volta ci sarà parecchia gente disposta
aiutarmi”.
Pubblicato su L'Officiel Hommes Italia
Nessun commento:
Posta un commento