lunedì 5 maggio 2014

Rinus Van de Velde, artista impersonatore

Foto Pablo Arroyo
A giudicare dai suoi quadri, l’artista belga Rinus Van de Velde vive una vita intensa e ricca di avventure. Un giorno è il campione di scacchi Bobby Fischer alla vigilia della vittoria per il titolo mondiale. Un altro è nei panni dello scienziato illuminista Isaac Newton mentre compie esperimenti usando il suo corpo come cavia. Poi è un tennista professionista o il miglior amico del poeta russo Vladimir Majakovskij. Nella realtà, la vita dell’artista trentenne ricorda più quella dello scrittore Jules Verne, famoso per aver scritto i suoi romanzi di viaggio senza mai essersi mosso dal suo appartamento di Parigi.
“L’esistenza fra le quattro mura bianche del mio studio di Anversa è piuttosto noiosa e ripetitiva”, ammette Van De Velde al telefono dalla città fiamminga. “Attraverso i miei quadri mi diverto a immaginare cosa avrei potuto fare se non fossi un artista”.
Per creare i grandi disegni a carboncino che l’hanno reso famoso, Van de Velde ha cominciato ispirandosi a immagini recuperate in vecchie riviste, creando una sorta di autobiografia della vita che non ha mai vissuto.
Il pittore colleziona informazioni e dati sui protagonisti dei suoi quadri, cercando di immedesimarsi il più possibile, quasi fosse un attore che si prepara a interpretare una parte: prima di disegnare se stesso nei panni di Bobby Fischer, Van De Velde si è recato in Islanda per vedere i luoghi dove avvenne la mitica vittoria del 1972 contro il russo Boris Spassky, che trasformò Fisher nel più grande scacchista di tutti i tempi.

Inizialmente i protagonisti dei suoi quadri avevano sembianze diverse, ma col tempo sono divenuti sempre più simili all’autore, rendendo l’immedesimazione ancora più completa. 
“Quando incontravo un personaggio barbuto era difficile identificarmi, visto che a me la barba non cresce. Quindi ho cominciato a usare me stesso come modello”.
Per disegnare i suoi carboncini, oggi Van de Velde non si limita a trarre ispirazione da immagini trovate su giornali o su internet ma produce fotografie originali, creando le atmosfere e sostituendo i personaggi originali con sé e i suoi amici.
“E’ come costruire un set cinematografico, ma il risultato è un’immagine fissa anziché in movimento”.
Scorrendo i lavori di Van De Velde, si ha l’impressione di trovarsi davanti al racconto autobiografico di un giramondo dai mille volti. Nei disegni si nota una certa evoluzione nella vita dell’autore, ma non fino a decifrarne gli stati d’animo.
“Sono diverse manifestazioni del mio essere e del mio sentire, ma il protagonista è sempre romanzato”.
Il desiderio di avere un’esistenza avventurosa deriva in parte dall’idea che un artista debba necessariamente essere un personaggio eccentrico, con una vita al di fuori dal comune. Poco prima di iscriversi all’accademia d’arte, quando era ancora minorenne, Van De Velde vide il film su Jean-Michel Basquiat diretto da Julian Schnabel. Pur riconoscendo che la pellicola era frutto di una visione edulcorata della vita del pittore eroinomane, l’artista belga è stato fortemente influenzato da questa percezione, al punto da proiettarla su di sé.
“Vengo da una famiglia normale, con un padre ingegnere e una madre insegnante. Ho avuto un’adolescenza felice ma ordinaria, fatta di amici, skateboard e qualche spinello. Per anni ho faticato a considerarmi un artista e per questo m’immedesimo con personaggi particolari, trasformandoli nei protagonisti dei miei lavori”.
Sotto questa voglia romantica di avventura, in realtà, si nasconde un uomo abitudinario che non ama viaggiare e tende a frequentare gli stessi posti. Van De Velde non cucina e mangia sempre in un caffè vicino al suo atelier. Qualsiasi amico voglia incontrarlo, sa dove trovarlo all’ora dei pasti.
“Sono un avventuriero fifone: amo fantasticare di peripezie incredibili ma sono troppo spaventato per compierle realmente”.
A parte qualche partita a tennis o a pingpong sul tavolo verde sistemato nel suo studio, la vita di Van De Velde sembra interamente votata alla produzione della sua arte. Qualche tempo fa è stato invitato ad andare alle Hawaii a lavorare qualche mese. Il suo gallerista gli ha procurato uno spazio sull’isola e si aspettava che la location insolita potesse indurlo a produrre una nuova serie ispirata magari agli atleti che sfidano le onde con i loro surf. L’artista belga, invece, ha continuato a fare i suoi lavori di sempre.
“Disegnare in uno studio in Belgio o alle Hawaii per me è lo stesso: la differenza sta solo nel clima”.
Gli stimoli esterni non gli interessano. Preferisce l’isolamento e la monotonia per scatenare la sua creatività interiore.
Inizialmente la scultura era il suo medium d’elezione. Quando ancora studiava all’Accademia d’arte era affascinato dalle opere di Rodin e dal modo in cui il maestro francese riusciva ad animare la materia inerte. Poi ha capito di essere troppo pigro per lavorare con pietre e metalli.

“La scultura è un medium molto fisico e difficile da realizzare in solitudine. Il disegno invece è più semplice e democratico: costa meno e può essere eseguito senza bisogno di assistenza o materiali particolari”. 
Rispetto alla pittura, il disegno è spesso considerato marginale, essendo usato dagli artisti per eseguire bozzetti e studi preparatori. Nel mercato delle opere d’arte, ad esempio, è difficile che una composizione grafica raggiunga le cifre di un olio o un acquerello. Ed è proprio questa secondarietà ad affascinare Van De Velde.
“Nel disegno c’è più libertà concettuale. Non ti devi necessariamente confrontare con i maestri della storia della pittura come Van Eyck o Rubens”.
Van De Velde ha cominciato realizzando formati piuttosto piccoli per poi crescere nel tempo fino a raggiungere e superare le dimensioni naturali, per dare l’opportunità agli spettatori di immergersi nelle atmosfere chiaro scure che compongono le sue opere. Questo, però, l’ha costretto a passare dalla carta alla tela: oltre una certa grandezza, la prima diventa troppo delicata da trasportare e conservare.
“Mi diverte realizzare opere di grande formato, ma può essere piuttosto meccanico. Quando ci sono parti ripetitive o grandi spazi da riempire col carboncino, spesso lavoro ascoltando un audiolibro”.
Anche l’assenza di colori comincia a stargli stretta. A volte Van De Velde vorrebbe aggiungere tonalità diverse al bianco e nero imposto dal carboncino, ma non è ancora riuscito a trovare un modo soddisfacente di farlo. Ci prova sistematicamente una volta al mese, ma non viene mai come vorrebbe. E quindi continua a buttare via i lavori. 
Come le dimensioni dei suoi quadri, pure le didascalie che li accompagnano sono andate aumentando. All’inizio erano poco più di un titolo. Da quando collabora con un amico scrittore, però, la parte scritta si è allungata, divenendo parte integrante dell’opera.
Van De Velde ama l’idea di coinvolgere altre persone nel suo lavoro. Nonostante riconosca l’utilità della solitudine per stimolare la sua creatività, spesso soffre di questa condizione. Da quando ha cominciato a produrre le immagini a cui s’ispirano i suoi disegni, però, ha trovato il modo di dare un senso alle collaborazioni. Ci sono persone che lo aiutano con la fotografia, altri che gli danno una mano per realizzare il set, le luci o i costumi. Il fatto di lavorare a più mani gli ha fatto anche tornare voglia di dedicarsi alla scultura. E per la prossima mostra che terrà in autunno a Berlino sta pensando di installare i set usati per la preparazione dei disegni.
“Dovrò rispolverare le tecniche imparate a scuola quando facevo scultura. Ma questa volta ci sarà parecchia gente disposta aiutarmi”.

Pubblicato su L'Officiel Hommes Italia

Nessun commento: