Pubblicato su Casa Vogue:
Per il suo autore era forse solo un’opera malriuscita, l’ennesimo tentativo fallito di riprodurre la realtà. Per il fotografo che l’aveva ricevuta in dono, invece, quella piccola statua rappresentava un tesoro prezioso, frutto del genio di uno dei migliori scultori del Novecento e ricordo della piacevole giornata passata in sua compagnia.
Alberto Giacometti era famoso per essere sempre insoddisfatto delle sue opere. “Tutti i miei lavori sono delle prove”, continuava a ripetere mentre musei e gallerie di tutto il mondo facevano a gara per aggiudicarsi i suoi pezzi. E quando, al termine di uno shooting per un servizio, aveva regalato a Milton Greene un piccolo bronzo in segno d’amicizia, il fotografo americano ne era rimasto lusingato.
“Mio padre conservò gelosamente il regalo di Giacometti per tutta la vita”, dice Joshua Greene, figlio 55enne del famoso fotografo americano, scomparso nel 1985. “Purtroppo dopo la sua morte la statua fu rubata insieme ad altri oggetti preziosi”.
Nel marzo del 1965, Greene era stato inviato a Parigi per scattare un servizio sullo scultore svizzero nel suo laboratorio di Rue Hippolyte Maindron. A quei tempi, Giacometti non batteva quasi più le strade di Montparnasse fermandosi a discutere fino all’alba insieme a Prévert, Bataille, Sartre e Genet. Lo scultore, che sarebbe morto dopo meno di un anno, viveva ormai un’esistenza ritirata, dedicandosi interamente al suo lavoro. Per facilitare quindi l’incontro fra l’artista e il fotografo, che doveva illustrare un articolo per il periodico americano Saturday Evening Post, era stato chiesto ad un amico di Giacometti, Henri Cartier-Bresson, di introdurre il collega americano.
I due fotografi si diedero appuntamento in un caffè di Montparnasse, poco distante dal laboratorio di Giacometti.
“Quando Cartier-Bresson arrivò, insistette per sedersi in una posizione particolare, in modo da avere una certa visuale sulla strada”, dice Joshua rievocando i racconti del padre.
Greene, quasi quindici anni più giovane, cercò subito d’intrattenere il suo anfitrione. Solitamente era bravo ad entrare in confidenza con le persone e a catturarne l’attenzione. Proprio questa sua dote gli aveva permesso di scattare alcune delle foto che lo avevano reso più famoso, come quelle fatte a Marilyn Monroe nella serie chiamata Black Sitting. Con Cartier-Bresson, però, la sua dote non sembrava funzionare. Il fondatore della Magnum pareva costantemente rapito nei suoi pensieri, fino a che non s’alzò senza dire nulla e si allontanò veloce per scattare una foto al traffico che scorreva. Quando tornò al tavolo si scusò con Greene e si lasciò finalmente andare, dedicandosi al suo ospite.
“In quel momento, a mio padre parve di aver colto l’essenza del modo di lavorare del maestro del fotogiornalismo”, ricorda Joshua.
Dopo aver preso un caffè, Cartier-Bresson scortò al laboratorio Greene, che era venuto insieme all’amico Joe Eula, famoso illustratore di moda e grande ammiratore di Giacometti.
Appena consumati i convenevoli di rito, il fotografo francese lasciò gli altri tre ai loro affari e se ne andò.
“Mio padre rimase disgustato dalle condizioni del posto in cui Giacometti lavorava”, ricorda Joshua. “Abituato a lavorare in uno studio ordinato, con grandi finestre e pareti immacolate, ebbe l’impressione di entrare in un’officina”.
Situato in una via anonima di un quartiere operaio, l’atelier di Giacometti era soprannominato da alcuni la grotta, per quanto era buio e polveroso. Giacometti ci si era trasferito insieme al fratello nel 1927, all’inizio del suo soggiorno parigino, e da allora non si era più voluto spostare. Diego dormiva nel laboratorio e Alberto in una stanza adiacente. Una stufa a carbone riscaldava parzialmente l’ambiente e la luce filtrava da finestre dai vetri impolverati. Vecchi giornali, disegni, mozziconi e detriti d’opere distrutte appena terminate giacevano sparsi un po’ ovunque. Nell’aria aleggiava odore di terra bagnata, muffa e sigaretta.
Giacometti era un fumatore incallito, e in questo si trovò bene con Eula.
“Da ex fumatore redento, mio padre odiava il fumo ma questa volta dovette sopportare in silenzio”, dice Joshua. “Giacometti fumava costantemente, nonostante fosse tormentato da una forte tosse”.
Lo studio non aveva l’acqua corrente, che bisognava andare a prendere da un rubinetto comune situato nel cortile insieme alla toilette. Ma lo scultore non faceva segreto del suo scarso interesse per la pulizia.
“Detesto fare il bagno. Se proprio devo farne uno, vado da mia moglie”, disse Giacometti al giornalista che lo intervistò per l’articolo apparso sul Saturday Evening Post.
Nonostante fossero reciprocamente devoti, i due non vivevano più insieme da tempo. Dopo un periodo iniziale in cui aveva condiviso lo studio con il marito, Annette si era trasferita in un confortevole appartamento poco lontano.
“Non ho potuto seguirla”, dichiarò Giacometti. “Non riesco ad accettare il concetto di possesso perché mi sento ancora troppo provvisorio. Non sono mai maturato, sono rimasto un principiante”.
Greene e Eula erano arrivati in studio in tarda mattinata. Rimasero a chiacchierare con lo scultore fino a circa mezzogiorno e poi pranzarono insieme nel retrobottega con vino, formaggio e baguette. Nel pomeriggio, Giacometti si mise al lavoro. Cominciava sempre a quell’ora e non smetteva fino a notte inoltrata, ispirandosi sempre agli stessi soggetti che ripeteva all’infinito, mai veramente soddisfatto. Nel frattempo Greene fece oltre 300 scatti allo scultore, fra cui quelli inediti ritrovati dal figlio Joshua e presentati in questo servizio.
Al termine del lavoro, Giacometti insistette per regalare una piccola statua ad entrambi gli ospiti.
Quella di Greene era il bronzo di una donna che si reggeva ad una sbarra, montata su una base di legno quadrata.
“Nonostante la polvere e lo sporco, mio padre ripeteva sempre che quell’incontro era stata un’esperienza meravigliosa e teneva moltissimo al regalo di Giacometti”, dice Joshua. “Purtroppo, negli ultimi anni di vita si era stato circondato di gente avida che non ha esitato a rubargli le cose più care subito dopo la sua morte, ma questa è un’altra storia….”
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