L'artista ha comprato una scuola di tennis abbandonata dove darà vita al suo istituto per la conservazione e lo sviluppo delle Performing Arts.
Pubblicato su Casa Vogue:
La scritta che campeggia sulla facciata dice Tennis Academy, ma le imponenti colonne di legno bianco ricordano quelle di una chiesa. E la temperatura all’interno della palazzina di mattoni fa pensare ad una cella frigorifera.
“Benvenuti nella futura sede del mio istituto”, dice Marina Abramovic spalancando le porte d’ingresso nella speranza di far entrare un poco di aria tiepida dall’esterno.
Tre anni fa l’artista serba Leone d’oro alla Biennale di Venezia del ‘97 ha acquistato questa grande costruzione nel centro di Hudson, paese di settemila abitanti a due ore da New York. In passato la struttura è stata adibita a diversi scopi: teatro, cinema, scuola di tennis, deposito di mobili usati. Ora è vuota, priva di riscaldamento e piuttosto fatiscente. Ma presto Abramovic conta di trasformarla in un istituto per la conservazione e lo sviluppo delle Performing Art, espressione artistica di cui è considerata la massima esponente vivente.
“Vorrei che questo posto diventasse come la Factory di Andy Warhol, ma senza le droghe”, dice passeggiando nella hall semibuia che un tempo conteneva il palcoscenico. “Non voglio creare un museo per le mie opere, ma un centro per dare spazio a giovani performers”.
Hudson potrebbe essere il luogo giusto. Negli ultimi trent’anni questo sonnolento villaggio sulle rive dell’omonimo fiume ha attraversato una crisi che fatto crollare i prezzi delle case, rendendo disponibili spazi a buon mercato. Dagli anni Novanta si è sviluppata una nutrita comunità gay. E oggi il paese è uno dei principali centri di scambio di mobili antichi e oggetti usati di design dello stato di New York.
Il progetto di Abramovic è molto ambizioso. D'altronde se non fosse una visionaria, difficilmente l’artista sessantaquattrenne avrebbe potuto diventare uno dei nomi più importanti dell’arte contemporanea.
“Non ho paura di fallire”, ammette uscendo dalla palazzina per scaldarsi un po’ al sole. Parla con tono sicuro, ma senza arroganza. “Nella mia carriera mi è già capitato di imbarcarmi in progetti finiti male. E alla fine ho sempre imparato qualcosa”.
Al momento, Abramovic non ha neanche un compagno di vita con cui condividere le responsabilità di portare avanti questo progetto. Dalla sua parte, però, ha una grande determinazione e un certo senso dell’ironia.
“Per seguire i lavori, l’anno scorso ho dovuto decidermi a prendere la patente. Ho prenotato le lezioni con un istruttore per disabili. Quando mi sono presentata, l’istruttore mi ha domandato cosa avevo che non andava. Io gli ho risposto: tutto”.
Obiettivo dell’Istituto è consolidare la legittimazione delle Performing Art.
“Le performance hanno sempre incontrato un certo grado di scetticismo. La mia retrospettiva al Moma dell’anno scorso ha contribuito a dare un riconoscimento presso il grande pubblico a questa forma d’arte, ma mancano ancora standard precisi per quanto riguarda la possibilità per un artista di riprodurre una performance di un altro”.
Il mondo dell’arte è sempre stato diviso fra coloro che rifiutano l’idea di riportare in vita performance del passato, e quelli che credono che la riproduzione sia invece non solo possibile, ma anche necessaria. Abramovic appartiene alla seconda categoria, e vorrebbe che il suo istituto contribuisse a portare avanti questa idea.
“Il risultato non potrà mai essere lo stesso se cambia il contesto cronologico e culturale in cui si crea un’opera, ma credo che la riproposizione sia comunque preferibile all’abbandono nel dimenticatoio”.
Per questo Abramovic vorrebbe che l’istituto funzionasse anche come archivio storico aperto a tutte le forme espressive di quest’arte.
“Sarà dedicato alla produzione e alla conservazione anche di teatro, danza, video, opera”, sottolinea mentre si prepara allo shooting fotografico. Porta un golf pesante e un cappotto disegnati dal suo amico Riccardo Tisci di cui va particolarmente fiera. “Finalmente posso ammettere apertamente quanto mi piace la moda”, confida con un sorriso. “Un tempo avevo paura di mostrare le mie passioni più frivole, ora trovo che mi rendano più umana”.
Requisito comune delle diverse espressioni di Performing Art ammesse nell’Istituto dovrà essere la lunghezza: ogni pezzo dovrà durare un minimo di sei ore.
“Diluire l’esperienza nel tempo può provocare cambiamenti a livello profondo, sia nell’artista che nello spettatore. Siamo sempre di corsa, e io vorrei che l’arte creasse l’occasione per farci rallentare i ritmi”.
Nell’istituto ci sarà una scuola estiva con corsi per allenare la mente e il corpo alla disciplina richiesta da molte performance: tecniche di respiro ed esercizi di resistenza, meditazione, concentrazione e digiuno.
Abramovic intende attingere dall’esperienza accumulata in oltre quarant’anni di performances.
“Credo di avere il dovere di trasmettere il mio sapere”.
Per prepararsi all’ultima opera presentata al Moma di New York, ad esempio, l’artista si è allenata con tecniche di meditazione e una rigida disciplina alimentare. La performance consisteva nel rimanere immobile su una sedia di legno nell’atrio del museo sette ore al giorno per tre mesi a fissare negli occhi le migliaia di persone che si sedevano davanti a lei.
“Ho seguito una dieta particolare per poter resistere tutto il giorno senza andare in bagno evitando di disidratarmi: durante la notte mi svegliavo per bere ogni 45 minuti”.
L’istituto non sarà unicamente rivolto ad artisti ma sarà aperto al pubblico, che potrà assistere alle performance o frequentare corsi per prepararsi ad affrontare queste maratone artistiche.
Fin dall’ultima biennale di Manchester, infatti, Abramovic ha cominciato a sperimentare con successo brevi corsi introduttivi rivolti al pubblico. Prima di lasciare liberi i visitatori di assistere alle performance degli artisti che aveva raccolto all’interno di un museo, ha chiesto ad ognuno d’impegnarsi a restare almeno quattro ore, rinunciando a orologi e cellulari. E ha obbligato tutti a fare degli esercizi per controllare il respiro e quietare la mente.
“Una performance non è uno spettacolo d’intrattenimento. Per apprezzarla occorre uno stato mentale particolare”.
Uno dei problemi principali che Abramovic deve affrontare per avviare il suo istituto, però, è la raccolta dei fondi necessari. Qualche anno fa l’artista ha venduto la sua casa di Amsterdam. Con il ricavato ha comprato una villa in campagna a 25 minuti di macchina da Hudson e la palazzina in cui sorgerà l’istituto, valutata circa 700.000 dollari. Poi ha ristrutturato il tetto. Ora però deve metter in sicurezza la struttura. E per farlo sta investendo tutti i soldi realizzati nelle ultime mostre.
Abramovic spera di poter aprire l’istituto entro l’estate del 2012. Non è necessario che sia rifinito nei dettagli. Basterebbe che la struttura fosse agibile.
“Prima di chiedere finanziamenti esterni per ultimare il progetto, vorrei che il posto cominciasse a funzionare, per dimostrarne le potenzialità”.
Visto ora, senza le scale, con le gradinate semidistrutte e le macerie accumulate in tutti gli angoli, sembra un’impresa impervia per una persona sola. Ma se c’è una cosa che Abramovic ha forgiato nel corso della sua lunga carriera è una forza di volontà fuori dal comune. E questa potrebbe essere l’ennesima occasione per metterla a frutto.
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