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Photo by Steve Pyke |
Alla vigilia delle sue mostre, va spesso
storto qualcosa. A pochi giorni dall’inaugurazione della prima personale a
Roma, Rachel Feinstein si aggira nel suo atelier di New York avvolta in una
grande coperta bianca. L’uragano Sandy è appena passato, lasciando la scultrice
senza luce né riscaldamento e forzandola a lavorare al freddo sotto la pallida
luce del sole autunnale. Feinstein, che insieme al pittore John Currin forma
una delle coppie più potenti dell’arte contemporanea americana, ha un’aria
elegante anche imbacuccata in una trapunta. Non si fatica a capire perché,
oltre ad essere una scultrice affermata, sia considerata anche una musa da
firme della moda come Marc Jacobs e Tom Ford, con cui ha collaborato sia come
modella che come creativa.
Insieme al marito Currin, Feinstein ha tre figli e
uno dei loft più eleganti ed eccentrici di SoHo, dove mobili in stile
modernista si mescolano ad altri Rococò. Dietro la patina glam, però, Feinstein
nasconde la praticità di chi è abituato a segare legno e spostare pesi per
ricavare sculture ispirate a mondi fiabeschi e temi religiosi. Oltre
all’aspetto diafano scopro l’energia che le ha permesso di crescere i figli
senza rinunciare alla sua carriera d’artista, tenere testa a un marito
considerato uno dei più famosi pittori viventi e non disperarsi mai davanti
alle avversità.
Quali altre calamità si sono verificate in corrispondenza delle sue mostre?
“L’Ultima volta è venuta una tempesta di neve
pazzesca che ha paralizzato New York proprio nel giorno in cui dovevo
finalmente trasportare le mie sculture e installarle nella galleria. Ma
l’esperienza più terribile è stata in occasione della mia prima mostra
personale, inaugurata subito dopo l’11 settembre. All’inizio volevo cancellare
tutto. Mi sembrava non avesse più senso. Ma dopo qualche giorno è successo
l’esatto contrario. Gli attentati mi hanno fatto amare ancora di più il mio
lavoro di artista e la libertà che mi concede”.
Quando ha cominciato a fare arte?
“Quando rinunciai a fare il Bat Mizvà e
m’iscrissi alle prime lezioni di disegno. Mio padre viene da una famiglia
osservante ebrea e mi mandò a una scuola religiosa. Mia madre però è cattolica
e quando ero piccola mi battezzò in segreto. Quando fu il momento di celebrare
il rito ebraico di passaggio s’oppose. E io mi rifugiai nell’arte”.
Spesso le sue opere contengono disegni ma lei preferisce definirsi
scultrice. Perché?
“Mi piace disegnare ma per essere pittori
bisogna essere un po’ mistici. Io sono troppo pratica. Quando condividevo
l’atelier con mio marito, lui era la donna dello studio ed io l’uomo”.
In che senso?
“Sul lavoro John è superstizioso, ha i suoi
riti con i pennelli e mette in mostra il suo lato più femminile, divertendosi
perfino a dirigere lo styling delle modelle che usa per dipingere. Fuori,
invece, torna ad avere l’atteggiamento del maschio che parla di politica e
sesso.
Io, invece, a casa sono tenera e materna ma in
studio sono più fisica, mascolina: mi piace aggredire i materiali con cui
lavoro. Il problema è che comincio a sentire l’età. Una volta saldavo, segavo e
sabbiavo da sola. Ora devo farmi aiutare da assistenti e non mi piace. Oltre
che grandi artisti, scultori come Richard Serra e Jeff Koons sono bravi
manager, capaci di gestire decine d’impiegati. Io invece non amo comandare la
gente”.
Gli artisti possono essere persone piuttosto egocentriche. Come vivono in
coppia un pittore e una scultrice?
“Siamo entrambi ambiziosi e ossessionati da
noi stessi. Ma stiamo insieme da quasi vent’anni. Ci critichiamo i lavori a
vicenda e litighiamo se quello di uno non piace all’altro. Ma riusciamo a
capirci molto bene. E nei momenti di stress, come prima di una mostra, sappiamo
sempre come supportarci”.
Con la differenza, però, che suo marito è più famoso di lei. Che rapporto
ha con la sua fama?
“Ammetto che a volte mi capita di arrabbiarmi
quando usciamo insieme e la gente riconosce lui, mentre a me chiede cosa faccio
di mestiere. Ma poi mi dico che è inutile prendersela, fra dieci anni la
situazione potrebbe essere ribaltata”.
Da dove nasce la passione per la moda?
“Quando ero ancora teenager e vivevo a Miami,
Bruce Weber mi notò per la strada e mi propose di posare per un servizio. Da
allora ho continuato a collaborare con il mondo della moda: ho posato con Kate
Moss, sfilato per Tom Ford e curato il set design per la presentazione delle
collezioni di Marc Jacobs”.
Ultimamente moda e arte si sono avvicinate molto.
“E’ vero, anche se nel mio caso questi
incontri non sono sempre stati visti di buon grado. Se una donna mostra il suo
lato mondano, nel mondo dell’arte c’è sempre qualcuno pronto a liquidarla come
poco seria. Ma nessuno osa dir nulla se mio marito o Julian Schnabel comprano
abiti sgargianti e vanno ai party più esclusivi”.
Che impatto ha avuto la maternità sulla sua arte?
“Ho sempre pensato di poter avere tutto,
famiglia e carriera, senza rinunciare a nulla come fanno gli uomini. Ma creare
è un gesto egoistico che richiede totale dedizione, mentre la mia attenzione
era spostata sui figli. Provavo un senso di colpa quando m’isolavo nella mia
arte. C’è voluta pazienza, ma ora che anche la più piccola è all’asilo va
meglio. E sono arrivata alla conclusione che, sì, anche le donne possono avere
tutto: è solo una questione di tempo”.
Pubblicato su Io Donna
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