“Sono in un momento di transizione:
dall’essere un esocannibale che si ciba dei suoi nemici, mi sto trasformando in
endocannibale che mangia gli amici”.
Devendra Banhart è famoso per le atmosfere
surreali delle sue musiche, spesso composte da testi stravaganti scanditi da
ritmi meticci. Una canzone del nuovo album Mala, ad esempio, racconta di una
suora del tredicesimo secolo che abbandona il convento di clausura per
diventare una VJ di MTV e diffondere il suo messaggio mistico in televisione.
Un’altra è uno sfottò antiromantico in cui un uomo risponde alle dichiarazioni
d’amore della sua donna ricordandole con sarcasmo quanto la tratta male.
Non sorprende quindi che una conversazione
con il cantante venezuelo-americano sia ricca di paradossi.
“Mea culpa, mea culpa. Ti stai suicidando
dalla noia?”, ci domanda al telefono dopo essersi speso in una lunga lode del
registratore anni Ottanta utilizzato per dare un’impronta vintage all’album in uscita a Marzo. “Volevi farla finita e per
questo hai deciso di stare ad ascoltare le mie risposte farneticanti?”.
Tutt’altro. Pur non seguendo sempre una
traiettoria logica, parlare con Banhart è una boccata di aria fresca. Invece
delle solite frasi precotte che si sentono nelle interviste, il cantante
trentunenne parla senza filtri. Definisce la sua musica semplicemente “un pop
non tanto popolare”; non nasconde la sua antipatia per i tentativi di
ingabbiarla in categorie tradizionali; e non si risparmia qualche insulto ai
critici che tentano di associarla a generi come l’indie folk o lo psycho folk.
“Questa è pigrizia mentale: spesso nei
concerti non uso neanche uno strumento acustico”.
Come le sue canzoni, anche Banhart sfugge
alle etichette convenzionali: si definisce una “persona poco creativa” che trae
ispirazione dal motto di John Cage, non ho nulla da dire e lo dico. In realtà è
un artista poliedrico, che passa dalla musica alla pittura, dall'inglese allo
spagnolo, creando atmosfere romantiche ed esotiche.
Nato in Texas da madre venezuelana di origini
tedesche, si trasferisce presto a Caracas dove trascorre l’infanzia, tornando a
vivere in California da adolescente. Questa esperienza fa sì che Banhart si
senta sempre un po’ straniero a casa sua.
“Sono vicino alle culture di entrambi i paesi
ma, in fondo, non mi sento parte di nessuna delle due”.
Porta il nome di una divinità indiana, scelto
dalla madre su suggerimento di un guru, ma non è mai stato nel paese asiatico e
non ha nessun interesse nelle filosofie indù. Nei primi anni della sua carriera
musicale, cominciata nel 2002, ha inciso sette album senza mai fermarsi. Da
qualche tempo, invece, ha rallentato i ritmi, dedicando più spazio alla pittura
ed esponendo in gallerie e musei di tutto il mondo, fra cui quelli di arte
contemporanea di San Francisco e Los Angeles e il Palazzo delle Belle Arti di
Bruxelles.
“Le arti visive occupano una buona parte del
mio tempo ora. E l’unico momento in cui s’incrociano con la mia musica è quando
disegno le copertine dei miei album”, dice il cantante descrivendo le sue opere
come “minimaliste e monodimensionali”, e aggiungendo con un certo stupore:
“Penso che i miei quadri siano piuttosto piatti e noiosi. Ma a me piacciono e
pare che io non sia il solo”.
Oltre a dipingere e registrare musica in uno
studio improvvisato nel giardino della sua casa di Los Angeles, Banhart è
tornato ad andare spesso in skateboard, sport di cui è appassionato fin dai
tempi in cui viveva a Caracas.
“Attraverso la cultura dello skate ho
scoperto la mia musica di formazione, come lo ska di Desmond Dekker e il rock
di David Bowie, The Smiths e Joy Division”.
Qualche anno fa, però, questa passione gli è
costata un ginocchio e la cancellazione di vari concerti.
“La colpa è di un amico brasiliano che mi è
caduto addosso. Mai finire nella traiettoria di un cranio brasiliano: sono
durissimi e pericolosi”.
Oltre che con le sue risposte oblique,
Banhart tende a confondere l’interlocutore anche con il suo stile personale. I modi
delicati e il gusto eccentrico nel vestire sfuocano i confini della sua
sessualità. Il cantante ha sempre avuto relazioni etero: in passato usciva con
Natalie Portman e oggi è fidanzato con la designer serba Ana Kras. Ma di tanto
in tanto ama vestirsi da donna. Ha cominciato quando era piccolo, cantando davanti
allo specchio con una spazzola al posto del microfono. Voleva una voce come
quella di Kurt Cobain e Mick Jagger, ma il suo timbro acuto somigliava più a
quella di una donna. E con i vestiti della madre addosso si sentiva più a suo
agio. Oltre a perfezionare il falsetto, diventato poi parte della sua cifra
musicale, questo inizio l’ha abituato presto a coltivare il suo lato femminile,
trovando ispirazione nella storia delle Crockettes, un gruppo rivoluzionario di
drag queen degli anni Settanta.
“Ho sempre provato una certa affinità con la
cultura transgender, per l’impegno
nel trovare un’armonia fra il mondo interno e quello esterno”.
Oltre a nascere da un’esigenza personale,
l’abitudine a rimescolare le acque ed esprimersi per paradossi presenta anche
vantaggi pratici. E permette a Banhart di schivare le domande che non gli
interessano, come quando, a conclusione dell’intervista, gli chiediamo se segue
le vicende del Venezuela di Chávez.
“Certo, sono stato invitato anche alla
cerimonia d’inaugurazione della presidenza. Purtroppo, però, non sono potuto
andare. Ero in Colombia per un’operazione chirurgica. Sto cercando di farmi
impiantare un pene sul ginocchio”.
Pubblicato su L'Uomo Vogue
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