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Courtesy Nan Goldin |
Teschi di cartapesta, animali imbalsamati e una pericolosa attrazione per sesso e droghe. Siamo entrati a casa di Nan Goldin, una delle fotografe più controverse, che ha trasformato le sue esperienze in opere d'arte.
Prima d’incontrare Nan Goldin ho la strana
sensazione di conoscerla pur non avendola mai vista. D’altronde, osservare il
lavoro della fotografa americana significa diventare partecipi degli aspetti
più viscerali della sua vita: dal suicidio della sorella maggiore, passando per
gli anni di tossicodipendenza, gli abusi da parte degli amanti e la perdita di
tanti amici per overdose o Aids. Tutte esperienze che Goldin ha registrato con
l’obiettivo della sua macchina fotografica a partire dagli anni Settanta. Così,
quando ci ritroviamo faccia a faccia nel salotto della sua casa di Manhattan,
risulta subito facile stabilire una connessione, anche se Goldin sta
attraversando un momento stressante. Tra pochi giorni inaugurerà una mostra a
Roma e dovrà traslocare a Brooklyn.
L’artista 60enne è sempre stata abituata a
spostarsi: è uscita di casa a 14 anni e ha vissuto in comuni, famiglie adottive
e almeno quattro paesi diversi. Ma non è una che vive in modo frugale e il suo
appartamento è invaso da soprammobili mezzi impacchettati, compresi teschi di
cartapesta e animali imbalsamati, che si mescolano a foto, provini e maquette
su cui sta lavorando per definire l’allestimento finale della mostra.
“Tendo a cambiare le immagini fino
all’ultimo, ma faccio molta fatica da quando la fotografia è diventata
digitale”, ammette la fotografa. “Ero abituata a maneggiare fisicamente le foto
e ora mi sembra di aver perduto il mio medium”.
Pur restando intime e personali, le sue
immagini esprimono un messaggio universale fatto di amori, turbamenti, sogni e
violenze. Ma i temi esplorati hanno spesso attirato critiche, facendo
dell’artista una figura controversa. Per alcuni detrattori, come l’ex
presidente americano Bill Clinton, la sua opera ha contribuito a rendere chic
il mondo delle droghe pesanti. Ma per i suoi ammiratori, il lavoro di Goldin è
una testimonianza poetica e sincera di una cultura urbana, ottenuto scavando
oltre le apparenze e mettendo a nudo i sentimenti dei suoi protagonisti.
“L’accusa formulata da Clinton di aver inventato
l’heroin chic è fastidiosa, oltre che
ridicola. Non avevo intenzione di rendere trendy la realtà della
tossicodipendenza. Era un modo per documentare quel che succedeva intorno a me.
Purtroppo nel mondo della moda c’è stato chi ha sfruttato un’estetica simile
per vendere vestiti. Lo vedo ancora oggi in alcune campagne pubblicitarie”.
Lei com’è sopravvissuta all’eroina?
“Ho incontrato alcuni angeli nella mia
vita. Il primo è stato il mio medico di famiglia. Quando notò i segni degli
aghi nel braccio mi disse che se avessi smesso di bucarmi non avrebbe detto
nulla a mio padre. Per un periodo smisi, poi ci ricascai ma fumando o sniffando
l’eroina. Questo mi ha tenuto lontana da alcuni pericoli, come le infezioni da
ago”.
Parliamo della sua prossima mostra, che cosa esporrà?
“Il lavoro principale è uno slide show di
35 minuti accompagnato da musica con testi in latino interpretati da un
soprano”.
Materiale controverso?
“Sono mie foto abbinate a immagini di
sculture e dipinti conservati al Louvre. Volevo dare alle opere del museo
francese un carattere più tattile”.
I protagonisti delle sue foto sono sempre stati amici e persone care. Ha
ancora un rapporto così intimo con la fotografia?
“Purtroppo molti membri della mia tribù
non ci sono più. Ma continuo a non riuscire a fotografare soggetti con cui non
ho rapporto. Se non conosco la persona che si ritraggo, scado facilmente nel
cinismo”.
A cosa sta lavorando ora?
“Sta per uscire un mio libro fotografico
dedicato ai bambini, intitolato Eden and After”.
Un bel salto dai temi di sesso, droghe e devianze trattati in passato. Come
mai?
“La vita continua e questo è quel che
succede ora intorno a me: gli amici hanno una famiglia ed io amo i loro figli”.
Una delle sue immagini più famose è un autoritratto scattato dopo essere
stata picchiata dal suo fidanzato di allora. Crede che quell’immagine sia
servita ad attirare l’attenzione sul tema degli abusi domestici?
“Meno di quel che avrei voluto. Tanto che
negli Stati Uniti è ancora uno dei tanti temi più ignorati. Le statistiche
dicono che il giorno del Superbowl si registra il maggior numero di abusi fra
le mura domestiche, ma nessuno ne parla”.
Una delle immagini in mostra contiene anche un riferimento al problema
dell’Aids.
“La malattia ha avuto un impatto devastante
nella mia vita. Molti amici sono morti a causa del virus ed io soffro di un
senso di colpa da sopravvissuta: spesso mi domando perché sono ancora viva”.
Ora la situazione è migliorata grazie allo sviluppo e alla diffusione di
medicinali antiretrovirali. Crede che l’Aids sia ancora un problema?
“Purtroppo sì. Le nuove generazioni
pensano che la malattia appartenga al passato e non abbia nulla a che fare con
loro”.
Nella sua vita ha amato uomini, donne e transessuali. Come definirebbe la
sua sessualità?
“Non m’interessa definirla: amo le
persone, non il loro sesso”.
Pubblicato su Io Donna
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