giovedì 13 marzo 2014

Nan Goldin: "La mia vita sotto scatto"

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Courtesy Nan Goldin
Teschi di cartapesta, animali imbalsamati e una pericolosa attrazione per sesso e droghe. Siamo entrati a casa di Nan Goldin, una delle fotografe più controverse, che ha trasformato le sue esperienze in opere d'arte. 

Prima d’incontrare Nan Goldin ho la strana sensazione di conoscerla pur non avendola mai vista. D’altronde, osservare il lavoro della fotografa americana significa diventare partecipi degli aspetti più viscerali della sua vita: dal suicidio della sorella maggiore, passando per gli anni di tossicodipendenza, gli abusi da parte degli amanti e la perdita di tanti amici per overdose o Aids. Tutte esperienze che Goldin ha registrato con l’obiettivo della sua macchina fotografica a partire dagli anni Settanta. Così, quando ci ritroviamo faccia a faccia nel salotto della sua casa di Manhattan, risulta subito facile stabilire una connessione, anche se Goldin sta attraversando un momento stressante. Tra pochi giorni inaugurerà una mostra a Roma e dovrà traslocare a Brooklyn.
L’artista 60enne è sempre stata abituata a spostarsi: è uscita di casa a 14 anni e ha vissuto in comuni, famiglie adottive e almeno quattro paesi diversi. Ma non è una che vive in modo frugale e il suo appartamento è invaso da soprammobili mezzi impacchettati, compresi teschi di cartapesta e animali imbalsamati, che si mescolano a foto, provini e maquette su cui sta lavorando per definire l’allestimento finale della mostra.
“Tendo a cambiare le immagini fino all’ultimo, ma faccio molta fatica da quando la fotografia è diventata digitale”, ammette la fotografa. “Ero abituata a maneggiare fisicamente le foto e ora mi sembra di aver perduto il mio medium”.
Pur restando intime e personali, le sue immagini esprimono un messaggio universale fatto di amori, turbamenti, sogni e violenze. Ma i temi esplorati hanno spesso attirato critiche, facendo dell’artista una figura controversa. Per alcuni detrattori, come l’ex presidente americano Bill Clinton, la sua opera ha contribuito a rendere chic il mondo delle droghe pesanti. Ma per i suoi ammiratori, il lavoro di Goldin è una testimonianza poetica e sincera di una cultura urbana, ottenuto scavando oltre le apparenze e mettendo a nudo i sentimenti dei suoi protagonisti.
“L’accusa formulata da Clinton di aver inventato l’heroin chic è fastidiosa, oltre che ridicola. Non avevo intenzione di rendere trendy la realtà della tossicodipendenza. Era un modo per documentare quel che succedeva intorno a me. Purtroppo nel mondo della moda c’è stato chi ha sfruttato un’estetica simile per vendere vestiti. Lo vedo ancora oggi in alcune campagne pubblicitarie”.
Lei com’è sopravvissuta all’eroina?

“Ho incontrato alcuni angeli nella mia vita. Il primo è stato il mio medico di famiglia. Quando notò i segni degli aghi nel braccio mi disse che se avessi smesso di bucarmi non avrebbe detto nulla a mio padre. Per un periodo smisi, poi ci ricascai ma fumando o sniffando l’eroina. Questo mi ha tenuto lontana da alcuni pericoli, come le infezioni da ago”.
Parliamo della sua prossima mostra, che cosa esporrà?
“Il lavoro principale è uno slide show di 35 minuti accompagnato da musica con testi in latino interpretati da un soprano”.
Materiale controverso?
“Sono mie foto abbinate a immagini di sculture e dipinti conservati al Louvre. Volevo dare alle opere del museo francese un carattere più tattile”.
I protagonisti delle sue foto sono sempre stati amici e persone care. Ha ancora un rapporto così intimo con la fotografia?
“Purtroppo molti membri della mia tribù non ci sono più. Ma continuo a non riuscire a fotografare soggetti con cui non ho rapporto. Se non conosco la persona che si ritraggo, scado facilmente nel cinismo”.
A cosa sta lavorando ora?
“Sta per uscire un mio libro fotografico dedicato ai bambini, intitolato Eden and After”.
Un bel salto dai temi di sesso, droghe e devianze trattati in passato. Come mai?
“La vita continua e questo è quel che succede ora intorno a me: gli amici hanno una famiglia ed io amo i loro figli”.
Una delle sue immagini più famose è un autoritratto scattato dopo essere stata picchiata dal suo fidanzato di allora. Crede che quell’immagine sia servita ad attirare l’attenzione sul tema degli abusi domestici?

“Meno di quel che avrei voluto. Tanto che negli Stati Uniti è ancora uno dei tanti temi più ignorati. Le statistiche dicono che il giorno del Superbowl si registra il maggior numero di abusi fra le mura domestiche, ma nessuno ne parla”.
Una delle immagini in mostra contiene anche un riferimento al problema dell’Aids.
“La malattia ha avuto un impatto devastante nella mia vita. Molti amici sono morti a causa del virus ed io soffro di un senso di colpa da sopravvissuta: spesso mi domando perché sono ancora viva”.
Ora la situazione è migliorata grazie allo sviluppo e alla diffusione di medicinali antiretrovirali. Crede che l’Aids sia ancora un problema?
“Purtroppo sì. Le nuove generazioni pensano che la malattia appartenga al passato e non abbia nulla a che fare con loro”.
Nella sua vita ha amato uomini, donne e transessuali. Come definirebbe la sua sessualità?
“Non m’interessa definirla: amo le persone, non il loro sesso”. 

Pubblicato su Io Donna

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